Prima delle vittorie, dei posizionamenti e dei titoli, c’è un aspetto che contraddistingue la vasta gamma di tifosi che hanno scelto di sostenere l’essenza delle proprie radici e il senso d’appartenenza cittadino ancor prima dei successi: la tradizione. Concetto che nel calcio si traduce in pochi ed essenziali elementi: nome, colori, simbolo. Se per il primo, fortunatamente, i supporter giallorossi ancora possono godere di quello originario, per i due restanti negli anni, a più riprese, ci sono stati cambiamenti e tentativi di stravolgimento che hanno creato più di qualche polemica. Il più sentito e per lunghi tratti contestato è quello relativo allo stemma, che ormai da undici anni non vede più l’acronimo ASR sotto la Lupa Capitolina, in favore di un più anonima ed esteticamente oscena scritta “Roma” (un’opera grafica che ricalca appieno quello riportato sulle magliette contraffatte che giravano soprattutto negli anni post terzo scudetto). Neanche una delle città più famose, conosciute e visitate del mondo avesse bisogno di “annunciarsi” per vendere maglie e materiale attraverso il club che ne porta il nome. Undici anni che la Roma gioca con un logo ben diverso da quello che già a inizio anni novanta era stato fortemente rivendicato – e infine riottenuto – dalla Curva Sud (a tal proposito celebre resta un coreografia realizzata in Roma-Juventus 1996/1997, in cui campeggiava lo striscione: “11.927 firme raccolte per riappropriarci della nostra storia”, realizzata al culmine di una possente petizione). All’epoca non si voleva tanto avversare il celebre “lupetto” di Gratton ma semplicemente tornare a far sormontare le casacche giallorosse dalla Lupa Capitolina, simbolo immortale e storicamente impareggiabile. A quel “lupetto” si può essere sicuramente legati, sia per l’avvenirismo di chi lo realizzò che per il simbolismo legato alla squadra che negli anni ottanta fece per lunghi tratti sognare i tifosi, tuttavia anche allora si voleva ripristinare ciò che di fatto è sempre appartenuto alla tradizione del club.

A oggi sono – come detto – undici, lunghissimi, anni che l’AS Roma scende in campo, in casa e in trasferta, in Italia e in Europa, con uno stemma che non rappresenta gran parte della tifoseria e che si pone come anti-storico anche rispetto ad altri restyling che in 97 anni hanno, ovviamente, riguardato la questione. Volendo allargare ancor più il discorso, verrebbe da dire che questa usanza di fregarsene ampiamente del parere dei tifosi – soprattutto di quelli più fedeli – riguardo alla simbologia, è un qualcosa di molto italiano. Basti vedere i cambiamenti (quasi sempre in peggio) apportati negli ultimi anni a maglie e stemmi anche di altre società. Spesso senza seguire una logica o, peggio ancora, senza avere rispetto per il contesto storico di una città e dei suoi colori. Purtroppo, va detto, anche le risposte delle tifoserie e degli ultras, sono a volte troppo leggere o estemporanee, non riuscendo mai ad aprire un vero e proprio dialogo in grado di sfociare in qualcosa di concreto. A volte basta una stagione positiva, dei risultati favorevoli, per dimenticare questioni di principio che invece non dovrebbero mai essere accantonate. Un atteggiamento molto italiano, che finisce per dare il la a tutti questi “fenomeni” che si occupano oggi di branding e grafica. E che spesso sembra non conoscano neanche minimamente il contesto in cui sono chiamati a lavorare.

Giornate come quelle del 22 luglio, in cui la tifoseria si riunisce, camminando insieme per il centro storico e celebrando i propri colori, sono fondamentali proprio per onorare sia il senso di appartenenza che la difesa di alcuni aspetti cruciali della propria storia. Quest’anno i 97 anni del club sono arrivati quasi in concomitanza con il riemergere della protesta per lo stemma, nonché poco dopo il malcontento generale per l’uscita del nuovo materiale tecnico. Se, infatti, una delle tute è stata addirittura ritirata dal mercato perché in parte azzurra, Adidas non sembra aver fatto tanto meglio sul resto delle divise. Tra seconde maglie bianche e arancio Aperol Spritz, casacche d’allenamento rosse, prima maglia con le strisce e scuse assurde sul perché di tali scelte (addirittura sulla tuta poi ritirata, l’Adidas aveva detto di essersi ispirata a un murales realizzato a Garbatella, come se, peraltro, potesse davvero esser un qualcosa di identificativo per i romanisti), una certezza torna in auge prepotentemente: non si dovrebbe mai abbassare la guardia e bisognerebbe essere più “rompiscatole” possibile su tali tematiche. Realizzare maglie con il vecchio stemma per una sola partita (come fatto lo scorso anno al derby) o stampigliare sulle terze casacche lo storico ASR è sicuramente bello, ma non basta. Rimane comunque un contentino. E “riappropriarsi della propria storia” è certamente più importante di ogni trofeo e di ogni vittoria. Anche perché se queste ultime dovessero arrivare a un club che, paradossalmente, non ha più stemma, colori e nome rispetto a quello che si è cominciato a tifare e seguire da bambino, che valore avrebbero? Non si tratta di essere integralisti, ma tifosi!

Quando la mezzanotte scocca, il corteo – partito da Piazza dell’Ara Coeli, proprio sotto le pendici del Campidoglio – è giunto in Via degli Uffici del Vicario. Il bandierone con la Lupa Capitolina (che nella passata stagione è stato portato unitariamente in trasferta) viene appeso sotto al civico 35 e la strada si illumina di torce e fumogeni, che grazie agli oltre trenta gradi rischiano di lasciare come sempre tutti senza ossigeno. In questo miscuglio umano c’è soprattutto la passione e ci sono il giallo ocra e il rosso pompeiano a farla da padroni. Colori semplici, che dovrebbero campeggiare su tutto il materiale tecnico, venendo realizzati anche con orgoglio da Adidas o chicchessia, considerato il valore storico che hanno. Sembra invece che, per ragioni di mercato, si cerchi sempre di complicare qualcosa di estremamente elementare. Proprio come la fede spontanea e genuina di questa gente, la cui missione è sempre più quella di ergersi a guardiani delle tradizioni e delle radici. In un’epoca storica dove per molti sembrano essere quisquilie e quasi si viene derisi parlando di colori esatti, maglie e stemmi storici, determinate battaglie assumono un aspetto ancor più grande e in grado di unire trasversalmente tutti i tifosi. Almeno quelli che costantemente frequentano lo stadio. Luogo che forse, ancora, riesce a restituire un primordiale senso di difesa del gonfalone e della propria città. Guai a dimenticarsene. E guai a lasciare passare con nonchalance tutti questi professori e nerd legati al loro nuovo calcio e al loro nuovo tifo. Che non è e non sarà mai il nostro.

Testo Simone Meloni

Foto Marco Meloni