“Il ricordo di Malines evocato a ogni bambino, vincere oggi per raccontare di Dublino”. Questo striscione, esposto dalla Nord nella semifinale di ritorno contro il Marsiglia, ha avuto probabilmente il merito inconscio di essere il faro guida per l’ultima tappa della stagione europea dell’Atalanta in quest’annata. Un’annata che a Bergamo ricorderanno per sempre, un epilogo che andrà ben oltre il semplice racconto da tramandare ai posteri. L’Atalanta, la regina delle “provinciali” per antonomasia, che sale sul gradino più alto e alza al cielo d’Irlanda un trofeo che per intere generazioni non è rientrato neanche nell’ordine dei sogni, tanto potesse essere incredibile. Un trofeo che cancella l’incubo della tre finali di Coppa Italia perse e della frustrazione di chi ha visto sfumare proprio a pochi centimetri la vittoria, il successo. La ricompensa massima per quell’essere atalantini che da sempre in Italia ha significato volersi confrontare con chi è più grande di te. Con le metropoli, sia in campo che sugli spalti. Con la repressione, le diffide e un sistema di limitazioni che negli anni la Nord ha sempre cercato di affrontare vis-à-vis, facendosi fautrice di iniziative e manifestazioni. Un modus vivendi che, alla fine dei conti, ha totalmente azzerato qualsiasi libertà della sua figura di riferimento. Quel Bocia “confinato” in riva all’Adriatico e strappato dal cuore dei suoi colori, che sono arrivati sul tetto del Vecchio Continente anche grazie al percorso di “evangelizzazione” da lui intrapreso tanti anni fa. Ma questa vittoria è anche la ricompensa per una società che indubbiamente ha saputo lavorare, ha saputo far suoi i concetti di progettualità e programmazione, facendo il salto lentamente. Passando da club in grado di sfornare campioni cristallini ma altalenare costantemente tra A e B a sodalizio ormai stabile nella parte sinistra della classifica e in grado di sparigliare mostri sacri del calcio europeo come Liverpool, Marsiglia e un Bayer Leverkusen imbattuto da oltre un anno, nonché campione di Germania e vincitore della Coppa nazionale. Insomma, tutto davvero poco italiano (sic!), come forse andrebbe ricordato a quelli che qualche anno fa contestavano la presenza della Dea in Europa perché “senza storia”. Chissà cosa avrebbero da dire oggi, che i lombardi riportano in Italia un trofeo che mancava da venticinque anni proprio grazie a un percorso sportivo netto e incontestabile.
Quando la mia sveglia suona, l’orologio segna le 3:30 della notte. Con Dublino stanno per iniziare i dieci giorni più intensi di questa stagione, che mi vedranno presenziare alle tre finali continentali con viaggi e spostamenti al limite del proibito, ma proprio per questo affascinanti e carichi di significato. Si inizia con un’andata quasi “tranquilla”: volo Roma-Londra, volo Londra-Cork e da lì pullman per Dublino. In mezzo una bella pausa di qualche ora proprio a Cork, terza città in tutta l’isola, ubicata nel sud, sulla foce del fiume Lee e celebre per la sua vita culturale, malgrado le minute dimensioni del centro storico. Faccio outing: sono già stato anni fa a Dublino e non l’avevo particolarmente apprezzata, percependone un anima sin troppo commerciale e venduta al genere di turismo dedito quasi soltanto all’alcol e allo sballo. A distanza di anni le cose non possono essere migliorate, così procrastino il mio arrivo nella Capitale a tarda sera, godendomi la pace di Corcaigh (nome gaelico della città) nonché un insolito sole che mi ammanta e scalda provvisoriamente. Sono costretto a utilizzare tale avverbio perché questo viaggio, in realtà, sarà caratterizzato dalle mie pessime scelte in fatto di vestiti e dal relativo freddo provato praticamente per quasi tre giorni. Dublino dista circa 260 chilometri e il mio pullman impiega tre ore per raggiungerla. Alle 22 ci sono ancora barlumi di luce solare e questo mi ricordo quanto mi sia spinto a Nord, mentre ai miei lati la verde Irlanda passa paciosa, quasi priva di centri urbanizzati (il Paese conta poco più di cinque milioni di abitanti, praticamente come Roma) e ben conciliante con chi deve seguire qualsiasi vocazione di tipo rurale o spirituale. Rimando a data da destinarsi un giro in macchina di questi luoghi, che meritano di esser approfonditi nel loro aspetto naturalistico prima ancora che in quello cittadino, e una volta giunto a destinazione sfrutto la pochissima batteria rimasta a disposizione per raggiungere il mio ostello. Ovviamente non posso non passare per il cuore della città, dove tante maglie nerazzurre e qualcuna rossonera, sono assolute protagoniste. La stanchezza del lungo viaggio mi suggerisce di dare priorità al riposo, per poi alzarmi di buona lena e affrontare al meglio il giorno della finale. Ultimo siparietto: una volta entrato in stanza il mio “coinquilino” prima mi guarda circospetto poi prova a chiedermi qualcosa in inglese, acclarato che la nostra lingua madre è la stessa e che, ovviamente, lui si trova qua per seguire l’Atalanta, cominciamo a spron battuto a parlare prima di calcio e poi di ultras. Mi mostra orgoglioso una vecchia sciarpa dei Wild Kaos e nei suoi occhi si leggono l’emozione e l’incredulità di chi ha visto retrocedere la squadra negli ultimi minuti dello spareggio contro la Reggina e di chi ha cullato quel sogno malamente infranto contro il Malines, in Coppa delle Coppe. A prescindere da qualsiasi fede calcistica, in lui vedo ciò per cui abbiamo tutti iniziato a seguire il pallone: la possibilità, almeno una volta nella nostra vita, di arrivare dove nessuno avrebbe mai pensato. La possibilità di sognare.
L’indomani alle 7 è già ora di alzarsi, preparare il mio – pesante – bagaglio e incamminarmi verso lo stadio, per ritirare l’accredito. In simili occasioni bisogna essere alquanto celeri nello svolgere questa operazione, onde evitare la caterva di giornalisti che a poche ore del fischio d’inizio si riverserà nell’area dedicata ai pass creando una fila infinita. Il mio programma, poi, prevede: camminata in centro per monitorare la situazione, piccola visita alle due fan zone nel pomeriggio e ingresso allo stadio un paio d’ore prima del fischio d’inizio (essendo qua un’ora indietro, la finale è fissata alle ore 20). Ammetto che di primo acchito la Dublin Arena non rapisce il mio cuore (e il mio istinto non sbaglia, una volta dentro l’impatto sarà quasi traumatico, come avrò modo di spiegare), tranne per la bellissima ferrovia che praticamente vi passa sotto, unendo il centro città con la periferia. Va detto che questo stadio, inaugurato nel 2010 (stagione in cui ospitò anche la finale di Europa League tra Porto e Braga, vinta dai primi) è utilizzato anche per il rugby. E va sempre detto che l’Irlanda non è propriamente un Paese celebre per il calcio. Del resto è sufficiente farsi un giro a Dublino per notare quanti riferimenti ci siano alle squadre di rugby e quanti pochi ce ne siano al football, sebbene un po’ tutti ricordiamo i suoi principali club, quali lo Shamrock Rovers, il Bohemians, lo Shelbourne e il St.Patricks Athletic. La verità è che i fitti rapporti con l’altra parte del Mar d’Irlanda, l’emigrazione e le fortissime comunità irlandesi presenti a Liverpool e Glasgow, hanno fatto che sì che a queste latitudini si radicasse la passione per il Celtic e soprattutto per i Reds. Mettiamoci poi che molti tifosi del Liverpool davano per scontato l’approdo in finale e hanno ben pensato di comprare in anticipo i voli per Dublino. Risultato? Molti di loro finiranno a bere nei pub del centro, inscenando cori e gag, perlopiù assieme ai tifosi tedeschi.
Come detto in precedenza, il centro di Dublino è ormai una triste cartina al tornasole del turismo della peggior specie e per il sottoscritto non è il massimo passare un paio di ore davanti al Temple Bar, noto pub di cui peraltro avevo ricordi agrodolci, datati di dodici anni. La maggior parte dei tifosi stazionano là, con cori che partono alla rinfusa e tutto sommato una tranquillità che non verrà mai scalfita durante tutta la giornata. Non c’è alcuna ragione per creare tensioni tra le due tifoserie e l’unica vera vincitrice sembra essere la birra. Di tanto in tanto qualche ragazzo, palesemente italiano e palesemente in orbita ultras, si dilegua in qualche giro di ronda, ma quest’oggi la cosa più trasgressiva, probabilmente, saranno gli adesivi con cui entrambe le tifoserie tappezzeranno muri, pali e buona parte del marciapiede che costeggia il fiume Liffey. A Bergamo sono stati venduti 7.960 biglietti sui 12.000 a disposizione. Tanti? Pochi? Sempre difficile giudicare. Da una parte c’è da dire che raggiungere la Capitale irlandese non era affatto facile ed economico. In molti si sono affidati a charter che oscillavano tra i 400 e i 600 Euro, molti altri hanno scandagliato Skyscanner per cercare soluzioni alternative, mentre altri ancora hanno preferito i maxischermi in città. Di certo non possiamo paragonare questi numeri ai circa 30.000 romanisti calati su Budapest lo scorso anno. Innanzitutto è differente il bacino d’utenza, in secondo luogo la Capitale magiara è tranquillamente raggiungibile via terra, cosa che non ha fatto lievitare vergognosamente il prezzo dei voli. Certo, pensiero personale: forse almeno diecimila nerazzurri me li sarei aspettati, proprio in virtù dell’appuntamento, unico per la loro storia. Ma credo (mi permetto) che in determinate dinamiche influisca anche il momento interlocutorio che la curva sta attraversando, venendo un po’ meno a quella macchina organizzativa perfetta e granitica di qualche anno fa.
La polizia irlandese, riconoscibile dalle divise in cui risalta l’espressione gaelica “Garda”, appaiono molto simili ai colleghi inglesi, osservando lo scorrere degli eventi senza troppa ansia. Gli unici che sembrano avere qualche preoccupazione sono i buttafuori dei locali, impegnati a non far strabordare le persone in strada, dove è fatto assoluto divieto di bere. “…prima linea noi militiamo, l’Atalanta noi sosteniamo!”, sento a un certo punto venire fuori dal Temple Bar. Uno dei cori storici della Nord, arrivato fin qui a testimonianza di quanto il passato sia troppo importante per il contingente orobico. E debba rimanere impresso sempre, anche dopo successi e traguardi insperati. Vista la monotonia delle stradine dublinesi, a un certo punto decido di spostarmi verso la fan zone bergamasca, da dove tre ore prima del fischio d’inizio partirà il corteo degli ultras alla volta dello stadio. Devo dire che salvo un paio di occasioni, questi spazi organizzati e gestiti dalla UEFA sono sempre al limite dell’oscenità: tanta polvere (che se piove diventa fanghiglia), stand con prezzi allucinanti e improbabili cantanti che provano a far intrattenimento. A prescindere da ogni discorso di mentalità, andrebbero boicottati solo per quanto sono brutti e kitsch! Anche se le figure più irritanti restano quelle messe là per dare indicazioni su tutto, un altro po’ anche su come andare in bagno o utilizzare le posate per prendere il cibo nel piatto. Quando vedo queste cose mi rendo conto, seriamente, di quanto come società europea siamo diventati e stiamo diventando dei perfetti inetti, spesso non in grado di utilizzare la propria individualità neanche per compiere azioni basilari.
Poco dopo le 17 ecco gli ultras bergamaschi cominciare a portarsi in testa al corteo per avviarsi allo stadio, distante poco meno di venti minuti. Uno stuolo di agenti si posiziona davanti a essi, dando il la alla “passeggiata”. Diversi curiosi si appostano ai lati e, inevitabilmente, danno sfogo alla loro dipendenza da telefono facendo foto e video da mettere su Instagram e Tik Tok con qualche didascalia anacronistica. Gente che sicuramente neanche sa di cosa si tratti ma che è talmente tanto eccitata dal poter creare un contenuto social che in quel momento riprenderebbe anche i propri genitori sul letto di morte. Non ne faccio neanche tanto un discorso ultras (oggi si è ripresi in ogni angolo del globo terracqueo dalle telecamere a circuito chiuso) ma proprio di dipendenza e morbosità. Il corteo si svolge in maniera alquanto composta, con cori che vengono scanditi in modo sporadico e una tensione tangibile che pervade l’intero serpentone atalantino. Ci sono davvero tutte le generazioni e rifletto su quanto, per i più giovani, questo sia un lusso che forse difficilmente potranno capire, non avendo vissuto un retroterra fatto talvolta di lacrime e delusioni. Quando arriviamo nei pressi dello stadio gli orobici superano agevolmente il primo filtraggio, per poi portarsi verso il settore di loro competenza e cominciare ad entrare. Personalmente preferisco ancora un po’ mischiarmi alla folla e fare un bel giro dello stadio, andando a dare un’occhiata nei pressi del settore riservato ai teutonici. Nota di colore: mentre mi incammino, mi imbatto in una simpatica famigliola che, direttamente dal proprio appartamento, ha tirato fuori un tavolo su cui sono poggiate bibite e bevande, con una ragazzina intenta a venderle. Grande fiuto commerciale e operazione da popolo mediterraneo; ora capisco un po’ di più il perché l’Unione Europea tra i Paesi definiti “zavorre”, oltre a noi, al Portogallo, alla Grecia e alla Spagna, abbia inserito anche l’Irlanda (si scherza eh, onore al merito!).
I tifosi del Bayer – che non sono certo celebri per la loro turbolenza incondizionata – camminano tranquilli nei pressi della zona loro riservata, con gli ultras della Nord Kurve che hanno già fatto ingresso sulle gradinate. Per svariati motivi mi è già capitato di sottolineare la crescita – di concerto con quella di tutto il movimento tedesco – della curva rossonera e senza dubbio quest’anno vola sulle ali dell’entusiasmo di una squadra sinora imbattibile. Anche per me si è fatta l’ora di entrare. Non senza qualche difficoltà, a causa della mancanza di indicazioni, mi avvio verso la media entrance, mettendo piede in quello che a breve diverrà uno degli impianti più brutti visitati nel 2024. Se vi interessa sapere il perché (ma pure se non ve ne frega nulla), è presto detto: impianto dotato incomprensibilmente di due curve diametralmente opposte, una composta da tre anelli (settore atalantino), l’altra da un solo rettilineo in stile stadio Dei Marmi di Carrara (settore Bayer). So che non riceverò mai una risposta, ma la domanda è semplice: perché? Che cosa passava nella mente dell’architetto di questo obbrobrio contemporaneo? Cosa avrà avuto di tanto luttuoso il “Renzo Piano della Guinnes” quando ha soltanto pensato a una simile oscenità? Poi, continuo: premesso che non mi piacciono gli stadi ad anelli, questo ne ha davvero troppi per una capienza che supera di poco le cinquantamila unità. Per non parlare dell’inclinazione: assolutamente contraria a qualsiasi criterio adatto a vedere uno spettacolo sportivo. E sì che non era difficile, basta prendere ad esempio un qualsiasi teatro greco o romano. Invece no, si è optato per il vecchio settore ospiti di Siena a quanto sembra. Ultimo ma non meno importante: perché relegare i tifosi italiani nell’angolo e non al centro del settore come avviene in ogni parte del Mondo? Mi fermo qui, ma potrei continuare fino a domani, magari nella speranza che a nessuno venga più in mente di organizzare una finale da queste parti.
Con il calcio d’inizio sempre più vicino, cominciano a mostrarsi anche le scenografie organizzate dalle due tifoserie. Sostanzialmente su ambo i lati verranno agitate migliaia di bandierine con i rispettivi colori sociali. Scelte basiche, che comunque sortiscono il loro effetto. La cosa che mi colpisce, in prima istanza, è come tutti i sostenitori del Bayer – anche quelli posti in tribuna – decidano di seguire la partita in piedi. Ecco, quando parlavo di crescita del loro movimento, mi riferivo anche a queste piccolezze: se anche il supporter “normale” si sente più a suo agio in piedi, vuol dire che il lavoro fatto dalle curve è davvero notevole. Vuol dire che si è andati definitivamente oltre la visione del tifoso come mero spettatore e ci si sente parte integrante, anche quando non si è curvaioli. Cultura da stadio: più si martella su determinate credenziali e più è difficile estirparla! A questo punto, con le squadre l’una di fronte l’altra, anche la contesa del tifo può avere inizio, benché – per i motivi succitati – coordinare il sostegno non è affatto facile, basti vedere la scomodità che hanno nel posizionarsi i ragazzi impegnati a lanciare i cori. Gli ultras dell’Atalanta si ammassano dietro le pezze che ormai da qualche tempo rappresentano la Nord in casa e fuori, tralasciando forse un pochino il colore, considerato l’unico bandierone presente. Non so se possano aver avuto qualche problema con le aste (tra le fila teutoniche ho visto numerosi bandieroni), però per l’immagine che abbiamo sempre avuto di loro fa un po’ effetto vederli più tendenti a uno stile “casual”. Sta di fatto che quando al 12′ Lookman porta la Dea in avanti, il settore ovviamente esplode, ripetendosi quattordici minuti più tardi. Nessuno, neanche il più ardito degli ottimisti, avrebbe mai pensato di trovarsi dopo ventisei minuti in avanti per 2-0 e con una squadra che sta letteralmente triturando l’avversario. Gli spettri della sconfitta patita solo una settimana prima all’Olimpico contro la Juventus, in Coppa Italia, avevano intasato la mente dei più, facendo calare un velo di pessimismo. Dopo i primi 45′ ho visto parecchia gente stropicciarsi gli occhi, comprendendo quanto a questo punto il sogno fosse a portata di mano. E il tifo? Come detto, per i ragazzi con il megafono non si tratta di un compito facile, così spesso tra un coro e un altro passa qualche minuto e si fa difficoltà a mantenere una certa intensità. Sicuramente belli alcuni battimani e i tormentoni, che dopo il raddoppio prendono quota. Per i tedeschi il doppio svantaggio e la prestazione asettica della squadra, sono botte pesanti, che i gruppi fanno fatica a trasformare in rabbia per cantare e tentare di forgiare l’undici di Xabi Alonso.
Nella ripresa, con i minuti che passano, la truppa guidata da Gasperini prende sempre più consapevolezza del dominio e al 75′ ancora Lookman chiude definitivamente i conti, suggellando teoricamente un successo che a questo punto appare certo. Il settore occupato dagli atalantini grida incredulo, mettendosi in mostra dapprima con una sciarpata e cominciando poi a festeggiare anzitempo. Non manca un coro, netto e forte, per il Bocia. Quel “Claudio Libero” che è risuonato in tutto gli stadi d’Italia e che oggi, a migliaia di chilometri dal Caligo Guercio, vuol cucire sulla sua maglia nerazzurra un pezzo di Europa League. La Nord Kurve capisce che ormai è andata e un bambino, poco distante da me, si dispera in lacrime. Il Bayer, malgrado il primo titolo nazionale vinto, sembra non riuscire a superare la maledizione europea, che lo scorso anno l’ha visto eliminato in semifinale dalla Roma e nel 2002 battuto in finale di Champions dal Real Madrid. Tuttavia i tifosi non possono che tirar fuori sciarpe e bandiere e colorare il settore, in segno di gratitudine per una squadra che ha fatto la storia del club. “Deutschland fußball meister” gridano le aspirine, di fronte ai volti attoniti dei calciatori. Ovviamente il clima è totalmente diverso dall’altra parte. L’Atalanta viene travolta dalla sua gente e qualche giocatore, probabilmente, vorrebbe affogare tra le braccia del pubblico. Il resto è storia consegnata alle televisioni di tutto il mondo: la coppa nelle mani di capitan Djimsiti che si alza imperiosa al cielo e va poi nelle mani degli ultras. Lo spicchio di gente bergamasca è in delirio e tende la mano a tutti quelli che in questo momento si sono riversati per le strade del capoluogo, ma anche dei paesini e delle valli. L’orgoglio di una piazza che dista una manciata di chilometri dalla seconda città italiana per grandezza, non può che essere immenso e incrollabile. Ci saranno giorni e notti per festeggiare. Ma soprattutto ci sarà quella che è sbagliato chiamare impresa, e che per correttezza va chiamata “vittoria della programmazione” e che resterà scolpita per sempre nella bacheca e nella storia di questo club. Nella speranza che le nuove generazioni non dimentichino mai da dove vengono, chi sono e cosa vuol dire andare all’Atalanta. Perché l’esultanza più significativa, probabilmente, è quella di capitan Stromberg, davanti alla tv. Un’esultanza con cui Malines è stata forse definitivamente scacciata e che delinea il senso di appartenenza di una tifoseria ruvida e che nel prossimo futuro, se riuscirà a ritrovare una quadratura e un senso di unità che storicamente l’hanno contraddistinta, è senza dubbio chiamata a tornare un esempio per tutti. Magari discussa, odiata e criticata. Ma ineluttabilmente grande.
Quando decido di lasciarmi alle spalle le scene di giubilo, l’orologio segna mezzanotte passata. Il mio pullman per Cork partirà fra due ore. Staziono un po’ nella sala stampa, ricaricando il cellulare e sgranocchiando qualcosa. La parte più difficoltosa di questa finale, per me, sta per iniziare: il viaggio di ritorno. Con la schiena già spezzata dallo zaino portato in giro tutto il giorno, mi incammino in direzione centro, passando tra gli atalantini che, scesi in strada, stanno festeggiando, e i delusissimi tifosi con maglie e sciarpe rossonere. Riguardo ancora una volta le zone più nevralgiche di Dublino e ribadisco a me stesso quanto davvero non mi riesca a piacere. Si, per carità, il Castello, le cattedrali, i palazzi lungo il Liffey…ma davvero troppo, troppo, troppo commerciale. Pur non essendo un cultore del Regno Unito, devo ammettere che preferisco di gran lunga Londra. Probabilmente perché grande e in grado di dare più opportunità al visitatore. Mettiamoci che sarà anche l’età ad avermi reso meno tollerante di certe pratiche e di certi viaggiatori, incentrati solo sullo sballo. Mentre capisco appieno – ci mancherebbe – la voglia sfrenata di chi stasera vuol festeggiare l’appuntamento con la storia. Salgo sul pullman e in men che non si dica sono tra le braccia di Morfeo, almeno per tre ore. Questi sono i momenti in cui non può che sovvenirmi una storica pezza lametina: “Gli eterni viaggiatori”. Considerato il tempo che ci metterò a rincasare, penso che davvero in questo caso l’aggettivo eterno sia più che calzante. Dopo una lauta, ma tutto sommato comoda – grazie ai tavolinetti dotati di prese – attesa all’aeroporto di Cork, alle 14 mi imbarco per Londra, destinazione aeroporto di Luton, dove il mio appuntamento è con un sinuoso pullman della National Express direzione Dover. Già, la cittadina delle bianche scogliere, quella famosa per gli audaci viaggiatori della Via Francigena, che là vi passano camminando verso Canterbury. Io, nella mia modestia invece, dovrei semplicemente imbarcarmi per Calais e da là proseguire con il treno per l’aeroporto di Beauvais, dove l’indomani mi attende un volo per Pisa. Ma ovviamente i piani sono fatti per esser sconquassati. Dopo una breve camminata dalla fermata del pullman al porto, nei pressi di quest’ultimo vengo fermato dalla polizia, che prima mi sbarra la strada con una volante e poi con fare minatorio mi chiede dove pensi di andare. Li guardo tra il divertito e il preoccupato e gli mostro prima il passaporto (cosa che li fa tranquillizzare, tanto è vero che alla sua visione esclamano: “Ahhhhhh you’re italian!” ridendo, manco fossi un ambasciatore di Città del Vaticano) e poi il biglietto del traghetto. Con tutta la tranquillità del mondo mi spiegano che innanzitutto non posso salire da nessuna parte se non ho un veicolo al seguito (cosa che sul tagliando non è scritta da nessuna parte), ma che se, tuttavia, proprio ci tengo a raggiungere Calais, allora debbo retrocedere di qualche metro e fare l’autostop. Nella speranza che qualche camionista mi carichi, portandomi con lui. Non è che la cosa mi impressioni o mi preoccupi, ma semplicemente mi viene da chiedere se sia tutto normale. Alla loro risposta convinta e affermativa eseguito gli ordini. Triste a dirsi, ma tant’è! E volete sapere di più? Dopo le prime “spolliciate” andate a vuoto, un van guidato da un trasportatore polacco si ferma, chiedendomi cosa sia successo. Inizio a spiegarglielo, ma visto che poco prima ha funzionato, ho la grande idea: tiro fuori il passaporto italiano. Indovinate un po’? “Ohhhhhh Italia! Bello!”. E in men che non si dica sono a bordo, a fianco del mio nuovo amico Lukas.
Ora: a me questa idea dell’autostop ha fomentato parecchio, pertanto quando Lukas mi chiede il passaporto da porgere agli addetti della Irish Ferry e in cambio mi ridà un voucher per un pasto gratuito a bordo, la cosa non mi pare vera. Successivamente il mio amico mi spiegherà che la scelta della compagnia (sulla Manica operano anche DFDS e P&O) non è casuale, ma si basa proprio sul cibo. A suo dire gli irlandesi sono più di manica larga. Ed effettivamente la colazione ingollata alle 3:30 del mattino mi basterà praticamente per tutto il giorno. Contentissimo di avermi caricato a bordo, il buon Lukas – diretto a Parigi – si offre anche di accompagnarmi in aeroporto, purché nel tragitto gli parli a raffica per evitare colpi di sonno. Non posso sbilanciarmi troppo nel dire gli argomenti toccati. Mi limito a due cose: la visione della sintesi di Wisla Cracovia-Parma del 1998, con tanto di evidenza e giubilo per il coltello lanciato in testa a Dino Baggio, e buona parte della discografia di Albano e Romina. Con l’obbligo di cantare a squarciagola “Felicità” (effettivamente era l’unico modo per averne un po’, in quel momento). Quando arriviamo a Beauvais sono le 7 del mattino e il mio aereo partirà “appena” alle 22. Se non siete mai stati in questo ameno aeroporto e non avete proprio necessità, non ci venite mai! Uno dei posti più angusti e noiosi del pianeta Terra. Penserete che è tutto qua? E invece no. Una volta sceso a Pisa dovrei prendere l’Intercity Notte per Roma, ma a causa del maltempo in Piemonte lo stesso porta ben trecento minuti di ritardo. Morale della favola? Altra notte a zonzo – però ho visitato Piazza dei Miracoli – e treno delle 5:30 per la Capitale. Inutile dire che una volta salito sul convoglio chiuderò gli occhi per riaprirli a Termini.
È sabato mattina. L’Atalanta è stata premiata praticamente quasi due giorni prima, mentre io sono appena riuscito a rimetter piede su suolo natio. Ma cosa importa? Quando un’esperienza del genere ti dà così tanto da raccontare e quando, comunque, non hai mancato l’appuntamento con un piccolo pezzo di storia calcistica, tutta la fatica va in secondo piano. Passerà nei giorni successivi, lasciando ricordi, emozioni e aneddoti. Non lascerà mai spazio alla piattezza di cui tanto ho paura e contro la quale cerco di combattere in ogni modo. In fondo anche io sono eternamente alla ricerca del sogno da perseguire e dell’utopia da realizzare. Almeno una volta nella vita.
Simone Meloni