Da Sofia a Londra ci sono due ore di fuso orario. Le lancette tornano indietro di centoventi minuti. E per me è quasi una manna dal cielo, considerato che quando il mio aereo decolla dalla capitale bulgara sono già le 20 e grazie a ciò potrò recuperare un po’ di tempo e dormire una quantità “normale” di ore in vista della finale di Wembley e di tutta la giornata che essa comporterà. La bella esperienza ateniese, culminata con la finale di Conference League la sera precedente, ha ovviamente lasciato strascichi di stanchezza, non fiaccando tuttavia la voglia e la curiosità di terminare il mio personale tris di finali. Dopo il viaggio di ritorno da Dublino, mi ritrovo ancora all’aeroporto di Luton. Per la seconda volta in vita mia, nel giro di pochissimi giorni. Penso a quanto la nostra epoca abbia reso piccolo il Mondo e veloci gli spostamenti. E se questo, dal punto di vista (peggiore) della globalizzazione, ha finito per omologare alcune peculiarità del nostro continente, dall’altra ci ha permesso indubbiamente di aprire il nostro sguardo oltre i confini e godere di un respiro più ampio, che se bene indirizzato può solo allargare e forgiare la forma mentis.

Chi mi conosce un po’ sa bene cosa possa pensare, in generale, della Champions League. Essendo amante del calcio senza fronzoli, di tifoserie lontane dai grandi palcoscenici e soprattutto di ambienti che cercano di eludere la sfrenata voglia di commercializzazione, preferendo della sana ignoranza e dei sempreverdi calcioni in luogo di giocate sopraffine, è ovvio che da una parte non abbia mai nutrito grandi ambizioni in merito a questa competizione. Perfino quando è capitato che la mia squadra ne fosse parte integrante, la seguivo con un certo distacco. Eppure – forse qua entra in gioco la mia vecchia vocazione di calciofilo – non posso negare che il seguirne una finale, peraltro in uno stadio storico come Wembley, mi renda in un certo modo orgoglioso. Certo, anticipo chi scalpita per sottolineare il concetto: anche quello che fu per antonomasia il tempio del calcio inglese non è più lo stesso, demolito ormai ben ventiquattro anni fa e rimpiazzato (seppur nello stesso luogo) da una nuova struttura, più capiente e moderna, inaugurata nel 2003. Così come il fascino che sul bambino che fui – appassionato di football fino al midollo – può aver esercitato un mostro sacro come il Real Madrid, viene letteralmente annacquato dal pensare a che tipo di club siano diventati i blancos e, soprattutto, da quale tipo di tifoseria siano seguiti attualmente. Praticamente, se volessi essere ortodosso, l’unico aspetto che dovrebbe leggermente incuriosirmi sono gli ultras di Dortmund. Fortunatamente, almeno in questa occasione, dei retaggi infantili prevalgono e mi lascio affascinare anche dall’evento. Almeno dal suo contenuto sportivo, perché quello televisivo e finalizzato all’intrattenimento davvero non riesco a farmelo scendere giù.

Mi rendo conto di essere un po’ scorbutico e davvero poco propenso agli inutili convenevoli, quando la ragazza alla reception del mio ostello perde almeno cinque minuti per chiedermi, con fare mieloso, come stia, come sia andato il viaggio, cosa ne pensi di Londra. Alla terza risposta a mezza bocca e al mio sguardo, voglioso di riposo, che incenerirebbe anche Madre Teresa di Calcutta, capisce di non aver di fronte il proverbiale “calore italiano”, così mi lascia la chiave augurandomi la buonanotte. Il mio rapporto con Londra è da sempre di amore e odio. La Capitale inglese è stata la prima metropoli europea in cui ho messo piede da adolescente. Uno dei primi viaggi in solitaria, fuori dalla mia città e dall’Italia. Una grande suggestione all’epoca e un fascino che di fondo è rimasto, sebbene reso agrodolce da una passione mai sbocciata per l’Inghilterra e le sue peculiarità che a tratti diventano affollati luoghi comuni. Ma Londra, ai punti, riesce sempre a strapparmi un qualche spunto di interesse e una qualche soddisfazione. Anche solo girare per i suoi parchi e viaggiare sulle sue metro, che per un appassionato di ferrovia come me restano ovviamente un must. Non ne tollero l’anima apparentemente tollerante ma profondamente ipocrita e discriminatoria, se si analizzano diversi suoi aspetti (cominciando dal vasto scalino esistente tra classe abbiente e strato più povero). Ne riconosco, al contempo, la capacità di dare opportunità a chiunque ne abbia voglia e ingegno, non a caso è da anni un porto sicuro per tantissimi connazionali in cerca di fortuna. Insomma, tutto sommato per qualche giorno si può fare. Anche perché, pur non essendo assolutamente un ammiratore del tifo inglese, ho sempre amato il modo di intendere e vivere il calcio da queste parti, tanto è vero che fino a qualche anno fa sapevo rispondere con una certa agilità anche a domande sulle categorie non professionistiche (Football Manager rules!), non avendo peraltro mai nascosto una simpatia per il Wimbledon, ripartito tempo addietro dai bassifondi, successivamente alle porcherie compiute nei confronti del vecchio club da parte di quello che oggi è il Mylton Keynes Dons. Una simpatia che nasce dalla visione di alcune partite della Premier a metà anni novanta, sulla celebre TeleMontecarlo.

Come ormai di consueto in queste occasioni, la mattina della finale inizia presto, con la sveglia che già alle 7 mi butta già dal letto. Alle 9 aprirà il Media Center, per ritirare l’accredito. E dal mio ostello, posto in zona Victoria, mi aspetta almeno un’oretta di viaggio. Le prime sciarpe giallonere spiccano per le strade, attorno alla stazione di Pimlico. Scendo nella Tube, conscio di dover prendere la Victoria Line, cambiare a King’s Cross e salire sulla Metropolitan, in direzione Uxbridge. Quando il convoglio arresta la propria corsa a Wembley Park, malgrado sia ancora abbastanza presto, ci sono già alcuni tifosi intenti a raggiungere lo stadio, che si trova proprio di fronte all’uscita della stazione, restituendo un’immagine alquanto panoramica. In avvio di articolo dicevo della sua ristrutturazione, avvenuta ormai quasi un quarto di secolo fa. Mi risulta sempre strano pensare come il proverbiale conservatorismo inglese – soprattutto nello sport – venga puntualmente smentito dai fatti, con impianti storici (che dovrebbero essere quantomeno tutelati se non eretti a monumenti nazionali) abbattuti senza un minimo pudore (Upton Park e Highbury sono solo due tra i tanti esempi che potremmo fare). In nome del Dio denaro più che di un’esigenza vera e propria di rinnovamento (quantomeno hanno avuto la compiacenza di lasciare White Hart Lane nello stesso punto, sebbene la sua trasformazione sia stata completa). Nessuno mette in dubbio che strutture tirate su quasi centocinquanta anni fa abbiano bisogno di restyling, ma pensare che Wembley, la regina di tutte le arene di calcio – quella Wem-ber-ly cantata nei cori di tutte le tifoserie d’Oltremanica da oltre un secolo – abbia venduto l’anima al diavolo e oggi sia solo una lontana parente di quello stadio che ha ospitato l’unico successo della nazionale inglese in kermesse iridate, infinite finali di FA Cup, coppe europee, egoisticamente parlando due successi degli Azzurri in epoche diverse (Capello e Zola gli eroi che firmarono i rispettivi 0-1), la dolorosa sconfitta della Sampdoria nella finale di Coppa Campioni del 1991 contro il Barcellona e la storica vittoria della Fiorentina contro l’Arsenal siglata da Batistuta, nella Champions League 1999/2000, lascia davvero un’amara sensazione di quanto tempi e concetti attorno al calcio siano radicalmente cambiati. Non mi piace essere passatista o nostalgico a tutti i costi, ma davanti a due elementi dismessi o abbattuti il mio cuore non regge: stadi e linee ferroviarie (o stazioni). L’unica cosa che minimamente lenisce la mia tristezza è sapere che il tabellone un tempo posto sul tetto del vecchio Wembley, è stato installato nel 2016 all’interno di Field Mill, stadio del Mansfield Town, squadra dell’omonima città sita nel Nottinghamshire, oggi militante in Football League Two (quarta divisione).

Ritiro il mio accredito, riscontrando sempre la fastidiosa cordialità britannica. Quella che per l’ennesima volta e senza alcuna ragione “costringe” anche il ragazzo del Media Center a chiedermi come stia, da dove venga, se mi piaccia Londra, se sia eccitato per la finale. E probabilmente altre quisquilie che avrebbe continuato imperterrito a domandarmi se non avessi accelerato la pratica, chiedendo a gran voce di cambiare l’orribile foto che stava imprimendo sul mio pass, ricordo di uno scatto fatto al volo per l’accredito della finale di Europa League dello scorso anno. Altra fase angosciosa, prima di uscire con il prezioso lasciapassare tra le mani, arriva da una ragazza: “Mi raccomando, indossalo solo allo stadio e non postare foto sui social!”. Ora, io comprendo tutte le precauzioni – soprattutto dopo la disastrosa gestione dei biglietti nella finale di Parigi tra Real Madrid e Liverpool, due anni fa – ma un altro vizio tutto inglese, che davvero mal sopporto, è quello di pensare di indicarti ogni minimo movimento da compiere, esattamente come si fa con i bambini. Un atteggiamento che è diffusissimo a queste latitudini, anche nelle piccole cose. Il celebre “Mind the Gap” – indicato nelle metro per invitare i passeggeri a fare attenzione allo spazio tra la banchina e il treno – è solo la punta di un iceberg grande più di quello che provocò il naufragio del Titanic! Ringrazio cotanto paternalismo con un finto sorriso ed esco, con l’obiettivo di immergermi completamente nel clima pre partita, facendo dapprima un salto nelle due fan zone e dando poi un’occhiata ai classici punti nevralgici della città, dove generalmente i tifosi si radunano in queste occasioni. Ai supporter tedeschi è stata riservata una porzione di Hyde Park, mentre a quelli spagnoli un lungo tratto del parco di Victoria Embankment, disposto lungo il Tamigi. Diciamo che stavolta, a differenza delle altre due finali, i meeting point possono meritare una sufficienza. Del resto sarebbe stato difficile trovare luoghi pessimi anche in una città come Londra, che pullula di parchi ed è abituata a ospitare e organizzare eventi di grande portata. Incamminandomi verso la metro, mi imbatto ancora in diversi tifosi che stanno passeggiando attorno all’area dello stadio ed è alquanto facile individuarne a grosse linee il target: tedeschi (tipicamente germanici) quelli del Borussia, cosmopoliti quelli del Real. Nessuno me ne voglia, ma il mélange di questi ultimi mi risulterà davvero poco digesto. Se da una parte posso capire (ci provo) un tifoso asiatico che, in assenza di grande calcio nel suo continente, volge le proprie mire pallonare a uno dei club più grandi e vittoriosi del Mondo, dall’altra è davvero difficile trattenere l’idiosincrasia culturale verso chi non ha la benché minima idea di quanto lo sport sia un importante trait d’union con le proprie radici e il proprio senso di appartenenza. Dei banali consumatori, della peggior specie. Quelli per cui, paradossalmente, spesso i club si “scervellano” in operazioni di rebranding, con loghi tramutati da effigi storiche a pagliacciate o che richiamano ideogrammi di pessimo gusto. Mettici poi che la maggior parte di questi sostenitori, secondo me, non sono venuti tanto per la partita, quanto per sfogarsi con i propri cellulari e passare ventiquattro ore a fare foto, video e storie da spammare sui social. O, nella peggiore delle occasioni, videochiamate con l’altra parte del globo terracqueo. Ovviamente anche sui mezzi pubblici. A volume altissimo!

Salgo nuovamente sulla Metropolitan, scendendo stavolta a Baker Street e facendo poi una bella passeggiata sino ad Hyde Park. Adesso i colori gialloneri primeggiano quasi ovunque e, di tanto in tanto, orde di ragazzi e signori più attempati improvvisano cortei in direzione della fan zone. Ovviamente gli ultras non si ritroveranno là e il loro corteo alla volta di Wembley partirà da un’altra zona. Ma per vedere qualche scena folkloristica e saggiare il clima, la mia scelta è comunque valida. Per il Dortmund è la terza finale di Champions League. I Schwarzgelben sinora contano una vittoria (nella finale di Monaco di Baviera del 1997, contro la Juventus, quando una doppietta di Riedle e un gol di Ricken regalarono lo storico trionfo) e una sconfitta, patita proprio a Wembley contro il Bayern Monaco undici anni fa. In generale il club della Ruhr in questi anni ha sempre mantenuto un ottimo livello, non riuscendo però a mettere in bacheca trofei significativi e, anzi, subendo cocenti delusioni, come la Bundesliga persa lo scorso anno proprio all’ultimo respiro. Essendo io reduce da un piccolo tour in Germania, qualche settimana prima, ho tutta la curiosità di vedere all’opera i Borussen, anche per testare con mano la crescita di un movimento – quello teutonico – che malgrado alcuni aspetti non di mio gradimento, è senza dubbio in vistosa ascesa ed ha il grande pregio di coinvolgere progressivamente tutte le componenti che generalmente frequentano uno stadio. Inoltre, lo dico con molta franchezza, nelle due precedenti occasioni in cui mi sono trovato al cospetto della Südkurve (derby contro lo Schalke 04 e match di Europa League contro l’Atalanta) non ho avuto una grandissima impressione da loro. Senza dubbio ben al di sotto della “credenza” che vorrebbe il Gelbe Wand (muro giallo) granitico e invincibile in fatto di tifo. All’interno della fan zone “solite” scene, con gente che tracanna birra e cibo, ragazzi che sfruttano il manto erboso per giocare a pallone e intrattenimento di dubbio gusto. La grande differenza, rispetto a quando sono coinvolte tifoserie italiane, è che in molti prendono posto in questa zona. Cosa che evidentemente per noi è meno concepibile, anche presso i tifosi più morigerati, che preferiscono affollare le strade cittadine. Quando decido di spostarmi verso Victoria Embankment, opto nuovamente per una passeggiata, transitando per Oxford Street, Piccadilly Circus e Leicester Square, incrociando diversi pub dove masnade di tifosi madrileni sono anch’essi intenti a bere e mostrare tutto il loro folklore con bandiere legate in vita (mah), tamburelli in stile sagra di paese (mah) e cori per i giocatori (mah). Non può mancare la birra lanciata in cielo, vero apice dei gesti vomitevoli da compiere attorno a una partita di calcio.

Mi soffermo per qualche minuto a Trafalgar Square, dov’è esposta una replica della Champions League e decine di tifosi – in sfregio a qualsiasi regola legata alla scaramanzia – sono in fila per fotografarsi, e poi mi introduco letteralmente nella fan zone madridista. Oggi ho il “privilegio” di vedere al confronto due modelli di tifo ben delineati: da una parte quello tedesco, partecipativo, a suo modo “ribelle” e in netta crescita, incentrato sul formare generazioni di ultras ma anche nel preservare il diritto all’autonomia dei gruppi e alla loro natura non “convenzionale”. Un’attitudine che porta i gruppi teutonici a suonare spesso il campanello d’allarme quando punti cardine del loro modello (vedasi anticipi e posticipi, partecipazione al 50 percento + 1 nei club e caroprezzi) vengono messi in discussione. Dalla parte opposta un modo di gestire gli aficionados che ha totalmente distrutto e allontanato qualsiasi forma di tifo organizzato e viscerale, favorendo l’ascesa di “automi” senz’anima e totalmente piegati al volere di Florentino Perez. Una figura determinante nello scenario curvaiolo del Santiago Bernabeu, che dal 2013 ha – di fatto – eradicato gli Ultras Sur (gruppo portante del tifo blancos dal 1980), sostituendoli con l’unione di buona parte delle Peñas (equivalente dei nostri club) che oggi formano la Grada e occupano il Fondo Sur. Un cambiamento che ha seguito la scia di quanto già avvenuto nel 2003 a Barcellona, a spese dei Boixos Nois e che ha alla base una vera e propria istituzionalizzazione del tifo più “caldo”. Dopo l’espulsione degli Ultras Sur – che nel frattempo continuano a chiedere le dimissioni di Perez – la dirigenza ha favorito la formazione di questa grada, costringendo tutti gli “adepti” a firmare un contratto in cui si impegnano, tra le altre cose, a stare sempre in piedi durante la partita, a vestirsi di bianco, a non assentarsi per più di un certo numero di gare, a comunicare tutti i modi con cui si vuol andare in trasferta (che, paradosso, sono vagliati dal club e in caso anche respinti…), a non contestare squadra e (ovviamente) società e a rinunciare a qualsiasi messaggio politico o razzista (uno dei nodi cruciali per molti gruppi spagnoli è sempre stato quello politico, aspetto che ha finito per castrare un movimento già di suo mai realmente forte e organizzato). Non sono chiaramente ammesse singole iniziative o aggregazioni autonome e il club si riserva il diritto di revocare gli abbonamenti ed espellere i tifosi in ogni caso in cui lo ritenga opportuno. Ovviamente guardando in casa nostra, tutto ciò (fortunatamente), sembra lontano anni luce (persino in casi che potrebbero essere analoghi, come quello della Juventus), ma deve far riflettere su quanto sia importante mantenere sempre alta la guardia e dar linfa nuova al panorama ultras, che se forte e radicato – anche quando bersaglio di repressione e fango mediatico – funge da frangiflutti nei confronti di simili idee. E questo sicuramente avviene in Germania, dove immagino che solo a sentir parlare della politica madridista provino una sensazione mista a soffocamento e morte interiore!

Dopo aver tortuosamente fotografato qualche fenomeno da baraccone e scorto, quasi imboscati tra le persone ferme davanti ai pub, un paio di ragazzi con la bandiera degli Ultras Sur, comincio ad avviarmi verso lo stadio. Il calcio d’inizio è fissato alle 20 locali e, volendo quantomeno incrociare gli ultimi 5-600 metri del corteo degli ultras di Dortmund, preferisco avviarmi con qualche ora di anticipo. Raggiungo la fermata di Charing Cross e mi accodo al serpentone di tifosi. Stavolta il viaggio in metro è più movimentato, con vagoni che oscillano al ballo dei supporter tedeschi, osservati e immortalati da passeggeri divertiti. Il colpo d’occhio della stazione Wembley Park è di quelli importanti. Dal parapetto che sovrasta il vialone ora non si vede più un centimetro di asfalto libero, ma solo un grande ammasso di gente intenta a raggiungere gli ingressi. Mentre sto scattando sento, in lontananza, il fragore di un coro e il battito di un tamburo, non ci sono dubbi: gli ultras tedeschi stanno arrivando. So bene quanto dovrò stare più che attento nel realizzare il loro scatto, conoscendo la loro poca simpatia per i reporter improvvisati e immaginando quanto si possano ulteriormente irritare in questa situazione, con orde di novelli Vanzina che pensano di poter filmare anche le parti intime di chiunque gli capiti a tiro. E infatti al loro passaggio scoppiano diversi focolai che faccio anche fatica a definire risse: semplicemente gli impervi “registi” vengono maltrattati, con la polizia inglese che interviene blandamente e si sgola più che altro nel ripetere di allontanarsi e non fotografare. Ergo: non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire! In taluni casi avrei criticato l’eccessivo slancio dei teutonici (anche perché, non dimentichiamolo, come buona parte delle tifoserie nordiche o dell’Est, portano con loro un discreto numero di fotografi “autorizzati”, oltre ad avere comunque decine di telecamere delle televisioni di mezzo Mondo puntate addosso), stavolta sposo appieno il nervosismo nei confronti di personaggi che non capiscono minimamente il contesto. Quelli delle dirette social di cui sopra, per intenderci. Quelli che, forse, vanno riportati alla vita di tutti i giorni con modi non propriamente dolci. La morbosità è un cancro dei nostri tempi e cercare di “aggredirla” non è mai negativo. Quando il corteo giunge davanti al primo filtraggio, numerosi ragazzi incappucciati si adoperano per “sfondarlo”, trovando del tutto impreparati steward che forse quest’oggi pensavano di aver a che fare soltanto con gente armata di sombreri e collane di fiori hawaiane! Per la prima volta in vita mia vedo reagire in modo più concitato i bobbies: uno di loro attacca letteralmente al muro un ragazzetto del Dortmund, urlandogli in faccia non so quali minacce. Vedo il tedesco con gli occhi sbarrati che sussurra soltanto: “Yes, yes, yes”, per poi venire rilasciato. Chi ha un po’ di dimestichezza con le dinamiche da stadio ha letto facilmente quanto accaduto: gli ultras del Borussia hanno preferito “caricare” per portar dentro materiale che evidentemente non sarebbe potuto entrare in modo normale. E la cosa avrà conferma durante il match, come vedremo. Considerazione sulla polizia inglese (più che altro in favore degli “espertoni” italiani che la nominano a vanvera nove volte su dieci): come sempre molto blandi e pazienti nel loro modo di fare. Nessuna esagerazione anche nei momenti più concitati e self-control nello svolgere il proprio compito. Quando si parla di modello britannico, bisognerebbe innanzitutto partire da qua, dal modo “civile” che hanno gli agenti nel trattare i tifosi e nel gestirli. Il che non vuol dire certo che si possa mettere a soqquadro una città e farla franca, ma significa che a queste latitudini non c’è un circo mediatico a imbastire trame sui tifosi “cattivi e violenti” e non c’è nessuno a invocare divieti o porte chiuse. Semplicemente chi sbaglia paga (soggettivamente e non collettivamente), con l’opportunità di difendersi prima che la diffida venga emessa. Si tende a tollerare qualche comportamento oltre le righe, che tuttavia ricade più nel folklore che nella violenza vera e propria, mentre sicuramente esiste una tolleranza zero relativamente a quelle che sono regole da stadio. Cari Giletti del caso (ne nomino uno per comprenderli tutti), volete il modello inglese? Che ben venga! Cominciamo a riaprire tutti i settori ospiti, a dotare gli agenti di numeri identificativi, a togliere dai biglietti la nominatività, a permettere chiunque venga incolpato di un reato di difendersi prima di avere la propria libertà limitata da un Daspo. Ci state? Ah, giusto per la cronaca: basta con questo stereotipo della violenza pari allo zero fuori gli stadi inglesi. Aprite YouTube e cercate, oggi lo può fare anche un bambino di due anni.

Quando i tifosi organizzati del Borussia hanno fatto il loro ingresso mi intrattengo ancora un po’ sul vialone, imbattendomi nientepopodimeno che in un altro “corteo”, stavolta composto dagli aficionados madridisti. Cosa dire? Penso di aver visto più spontaneità e dedizione in una qualsiasi manifestazione di pensionati (con tutti il rispetto per questi ultimi). Non commento oltre, parlano le foto al posto mio! Mi limito a dire che dopo aver osservato il mosaico con cui viene omaggiato lo storico capitano della Nazionale inglese e del West Ham, Bobby Moore, anche io decido di entrare, trovando stranamente con facilità l’ingresso media, superando i controlli e penetrando nella pancia di Wembley. Manca poco più di un’ora al fischio d’inizio e gli spalti stanno andando man mano riempiendosi. Ovviamente il primo paragone che mi viene naturale fare è con la vecchia struttura, anche se ne ho soltanto ricordi fotografici o figli di immagini televisive. Inevitabilmente molto del fascino esercitato da quell’impianto realizzato per l’Esposizione dell’Impero, nel 1923, è andato perso. Un fascino legato agli eventi che ha ospitato nella sua storia, ma anche all’immagine retorica che ogni tifoso di calcio ha sempre percepito anche solo a leggere il nome di quella che tutt’oggi per molti resta The House of Football. Ciò non toglie che il Wembley moderno sia un signor impianto, che continua a ospitare il cuore pulsante della vita calcistica inglese (e non solo) e che nei suoi dintorni ha dato vita a tutto un importante indotto impiegatizio e lavorativo. Nota di merito per la tribuna stampa: larga, confortevole ma non pacchiana, dotata di tutto l’occorrente e posizionata a un’altezza perfetta per vedere il campo. A questo punto non mi resta che cominciare a capire cosa hanno in serbo le due tifoserie, sebbene da quella iberica ci sia ben poco da aspettarsi. Gli altoparlanti irrorano le musiche dei rispettivi inni e i due settori si mettono in mostra con le sciarpe tese al cielo. Ovviamente molto più bella e appariscente la sciarpata tedesca, più folkloristica quella spagnola. Questione numeri: la capienza ufficiale è di 90.000 spettatori, ridotta di qualche migliaio di posti negli incontri UEFA. I tagliandi venduti in Germania sono circa 35/40.000, poco meno quelli acquistati dai supporter del Real (con la differenza, già evidenziata, tra tifosi e occasionali provenienti da ogni parte del Mondo, esattamente come si fa per un concerto dei Coldplay o dei Rolling Stones), il restante spetta a sponsor, vip, dirigenti, varie ed eventuali.

Quando le due squadre fanno il loro ingresso in campo, nel settore riservato gli ultras del Borussia, si levano al cielo migliaia di cartoncini gialloneri, sormontati poi da una corona e dalla scritta “We are back in town to steal the crown” (Siamo tornati in città per rubare la corona). Già di mio non sono un amante delle coreografie, ma in questo caso penso non si offenderà nessuno se dico che si sarebbe potuto fare di meglio. Ho trovato un po’ banale l’idea, inoltre una parte di cartoncini – quelli situati al secondo anello – è stata esposta non alla perfezione, forse a causa dei presenti in quella zona, apparentemente non tifosi abituali e forse neanche del Borussia (da quanto ho capito in quell’anello sono stati sparpagliati gli aventi diritto a ticket omaggio). Sullo scenario relativo alla zona occupata dai fan del Real Madrid cosa dire? Per qualche minuto cala un telone con il logo del club e la scritta “Hasta el final vamos Real”. Davvero poca roba, ma non mi aspettavo di meglio. Quando le scenografie calano è il momento di dar via al tifo e subito, tra le fila tedesche, noto la presenza della Sud Catanese e dei gemellati di Colonia. Se allo spettacolo realizzato all’ingresso delle squadre non ho dato un giudizio entusiasmante, per quanto concerne la prova canora dei gialloneri, invece, devo dire che rimarrò positivamente impressionato. Innanzitutto una conferma di quanto il panorama teutonico faccia netti passi in avanti ogni anno, potendo contare su una vagonata di nuove leve e su un modo organizzativo che rispecchia molto la schematica società alloctona. Rispetto alle precedenti esperienze – forse anche aiutati da un settore diviso in anelli, e quindi più compattante soprattutto in quello più basso, i Borussen si dimostrano assolutamente all’altezza della situazione, sfoderando una performance che per tutti i novanta minuti si esalta con manate, bandieroni al vento, cori spesso eseguiti da tutti i presenti (compresi quelli sparsi in altre zone dello stadio), una bellissima sciarpata nel finale – a partita ormai persa – e soprattutto una torciata che, a inizio secondo tempo, illumina rosso fuoco parte di Wembley (evidentemente l’ingresso concitato non era casuale…), meritando un plauso per aver messo in primo piano, nell’atto più importante della stagione calcistica continentale, quella battaglia in favore della pirotecnica di cui le tifoserie di Germania sono protagoniste da anni. Davvero ben poco da eccepire. Anni e anni luce lontano dal modus vivendi imposto dai Florentino Perez del caso. In poche parole: civiltà contro barbarie. A tal proposito, su fronte opposto, ben poco da segnalare, se non sporadici cori seguiti da un ristretto numero di presenti (anche perché dubito che parte di loro sapesse lo spagnolo) e le due esultanze con cui vengono accolti i gol di Carvajal e Vinicius Junior. Reti che consegnano la quindicesima Champions League al Real Madrid e la quinta personale a Carlo Ancelotti, sempre più Re indiscusso di questa competizione. Malgrado non riesca proprio a ergersi come tutore del bel gioco e dello spettacolo (sic!). Dopo il triplice fischio i giocatori del Dortmund si portano attoniti sotto al loro settore, che tuttavia li applaude, ringraziandoli per il cammino compiuto ed esibendo ancora una volta le loro sciarpe. Dall’altra parte di Wembley, ovviamente, si festeggia, con i blancos che ricevono la coppa e temporeggiano sotto al settore dei loro tifosi, levandola ripetutamente al cielo.

Osservo questi ultimi scampoli di serata, prima di abbandonare lo stadio e dirigermi verso la metro. Ho il tempo un po’ contingentato per raggiungere la stazione degli autobus di Victoria e da lì salire sul National Express in direzione aeroporto di Stansted. Malgrado mi faccia prendere dalle ansie tipiche di chi è abituato a viaggiare sui mezzi italiani, la coda per prendere la metro viene smaltita alquanto velocemente e anche io riesco a raggiungere la mia meta senza preoccupazioni. Realizzo di aver portato a conclusione le notti europee e di esser adesso sulla definitiva strada del ritorno. A Stansted una fila infinita, alle tre del mattino, inquadra i tifosi del Real, in attesa dei loro charter. Mentre per me ci sarà ancora qualche ora di attesa per poi decollare alla volta di Bologna. Dopo aver superato gli estenuanti controlli dello scalo londinese, mi siedo e comincio a riguardare le foto e riordinare le idee. Sono momenti in cu l’adrenalina comincia a calare, la stanchezza si fa sentire e il freddo britannico ti entra nelle ossa, anche in luogo teoricamente coperto e riscaldato come un aeroporto. Arrivato al termine di questa esperienza posso dire di essere soddisfatto e soprattutto orgoglioso nell’aver potuto seguire ufficialmente gli atti finali di questi eventi, dietro al nome di una testata che in questi anni ha ottenuto centimetro dopo centimetro, solo ed esclusivamente grazie al lavoro e alla dedizione di tutti quelli che ogni giorno ne rendono possibile la vita. Ripenso a quanto a volte sia difficile comunicare in situazioni kafkiane, o davvero al limite del paranormale, con club e istituzioni che dovrebbero invece venire incontro. Ma va bene così. Anche perché non c’è tempo per recriminare. Devo approfittare del volo per riposare qualche ora ed esser pronto al vero atto finale della settimana: prima la finale di ritorno dei playoff di Eccellenza tra Sandonà e Fossano e poi la semifinale di ritorno dei playoff di Serie C tra Vicenza ed Avellino. Per mandare in vacanza la smania di partite e tifo c’è ancora un po’ di tempo, mi dico, mentre chiudo gli occhi stendendomi sui posti vuoti dell’ennesimo volo Ryanair preso nelle ultime settimane!

Simone Meloni