La soluzione di viaggio è ancora una volta di quelle complicate e tortuose: pullman fino a Milano, treno per Malpensa, aereo per Londra Stansted, pullman per Victoria Station e treno per Brighton. Solo a scriverlo ora, a distanza di qualche settimana, mi sento stanco. Ma tanto dovevo al lettore, sicuramente bramoso di sapere i miei spostamenti (sic!). In realtà per me Brighton non è una novità, anzi. Ne ho un nostalgico ricordo legato a uno dei primi viaggi compositi della mia vita, tanti anni fa, quando in circa venti giorni lambii alcune delle tappe più importanti tra Regno Unito e Irlanda, tra cui proprio la città posta sulla costa del Sussex. A livello calcistico non mi esalta mai andare in Inghilterra, sono sincero. Non essendo un cultore delle tifoserie locali, né di tutto ciò per cui la Britannia è amata e, spesso, eccessivamente venerata, personalmente finiscono sempre per essere viaggi senza grandi sussulti. Se poi si parla di Londra – per quanto da un punto di vista culturale riservi sempre il suo interesse – esserci stato tantissime volte non stimola la mia fantasia, soprattutto in un periodo della mia vita dove sono all’eterna ricerca della novità. Sta di fatto che, seppur mordi e fuggi, alla fine prendo la via di Brighton, anche curioso di vedere come i romanisti affronteranno la trasferta in quella che idealmente è una delle roccaforti delle sottoculture inglesi (in particolar modo di quella Mod, resa celebre dal film Quadrophenia).
C’è una cosa che, pur non essendo anglofilo, ho sempre riconosciuto ai britannici: la passione piramidale per il calcio. Il seguito importante e massiccio a ogni latitudine e in ogni realtà cittadina. Brighton ovviamente non fa eccezione e – a differenza di tante realtà finte e plastificate – la squadra locale vive un periodo d’oro dopo anni di difficoltà, umiliazioni e stenti che portarono il club in quarta divisione, costretto a vendere il proprio stadio e dover giocare lontano dalla città o, come avrò modo di dire, in uno stadio provvisorio e fondamentalmente antistorico per i canoni locali. Un po’ meno simpatia, invece, più per colpe altrui che proprie, la provo per uno dei tanti “profeti” creati dai soloni della carta stampata e non solo, vale a dire Roberto De Zerbi. Fatto passare come il nuovo Guardiola e tornato nella Perfida Albione con quattro gol senza possibilità di appello dopo la gara di andata, rappresenta – a livello iconico, non umano ovviamente – il perfetto stereotipo dell’esaltazione del “poco”, tanto in voga in questi tempi. Non ci capisco nulla, ma da buon italiano provo piacere nel vedere letteralmente disintegrata una squadra che alla fase difensiva non presta la minima attenzione!
Con i suoi 480.000 abitanti, Brighton (che assieme al distretto di Hove dal 2000 forma una solida autorità unitaria) è la quindicesima concentrazione urbana del Paese, nonché un punto di riferimento per buona parte del turismo diretto verso la costa sud. Città storicamente di “larghe di vedute” e detentrice di un primato che probabilmente interessa solo me: proprio a pochi passi dal Palace Pier (il pontile principale e più rappresentativo) parte la Volk’s Electric Railway (VER), la ferrovia elettrica ancora attiva più vecchia al Mondo. I suoi binari si dipanano per qualche chilometro seguendo il corso del lungomare, fungendo più che altro da mezzo turistico. Un paio di lustri fa viaggiando da Roma a Londra con il treno arrivai a ridosso delle bianche scogliere di Dover, celebri in tutto il mondo per la loro conformazione e, per l’appunto, il loro candore. Da queste parti si percepisce ancora, seppur vagamente, quella conformazione e la spiaggia di sassi, che a un certo punto digradando a piombo nel mare, fa suggestione. Soprattutto per chi, come me, ha sempre avuto una sorta di parafilia per la Manica: mi affascina moltissimo questa striscia di acqua dove sono presenti anche alcune isole abitate in cui si parla un misto tra inglese e francese. A tal proposito uno dei miei “miti” in adolescenza fu Mattew Le Tissier, storico capitano del Southampton nato in una di queste isole (Guernsey) e conosciuto come un vero e proprio folle. Virtù che molti inglesi collegavano al suo luogo di nascita.
Tornando al motivo della mia sortita inglese, scendendo nella stazione di Preston Park la prima tappa è Withdean Stadium, lo stadio che provvisoriamente ha ospitato le gare interne dei Seagulls dal 1999 al 2008. Ma perché questa emigrazione forzata? Negli anni novanta il sodalizio cadde in una gravissima crisi economica, che oltre a produrre il tracollo sportivo menzionato in apertura di pezzo, costrinse la dirigenza a vendere – nel 1997 – lo storico stadio di Goldstone Ground (terreno di gioco dove, peraltro, debuttò nel 1992 un certo David Beckham, in una partita valida per la Coppa di Lega), casa del Brighton dal 1902, trasformato successivamente in un anonimo e freddo centro commerciale. Una mazzata terribile per squadra e tifoseria, obbligata e disputare fino al 1999 le proprie gare interne al Priestfield Stadium di Gillingham, distante oltre cento chilometri, per poi tornare a casa al Withdean. Un piccolo impianto (dotato di soli 8.676 posti) inaugurato nel 1936 e utilizzato principalmente per l’atletica, tanto da venir votato nel 2004 come il quarto peggior stadio di tutto il Regno Unito. A entrarci oggi si fatica seriamente a immaginare squadre inglesi, anche di categorie inferiori, giocarci. Sembra di essere, piuttosto, in uno di quegli sgangherati stadi italiani dove di tanto in tanto si aggiunge una tribuna in acciaio o si smonta un pezzo prima che crolli. Sin dall’inizio degli anni duemila, in realtà, c’era la volontà di costruire una nuova casa per la squadra locale, ma lunghe ed estenuanti dispute con le istituzioni e la politica locale, consentirono alla prima pietra di esser posata solo nel 2008, con l’inaugurazione ufficiale dell’attuale Falmer Stadium avvenuta nel 2011, in occasione della sfida contro il Doncaster, valida per il campionato di Championship (la nostra Serie B). Una storia, in fondo, molto italiana se ci si pensa, conclusa tuttavia… all’inglese. Il nuovo stadio, infatti, è ovviamente un gioiellino che con i suoi 31.800 posti ha restituito alla città una dignità finita sotto i tacchi per oltre un decennio, contribuendo alla lenta ma inesorabile crescita anche sotto il punto di vista dei risultati.
Per chi mastica un po’ di football d’oltremanica il paragone che sto per fare non sarà peregrino: i Seagulls non saranno la società con più presenze nella massima divisione, ma non sono neanche minimamente paragonabili a un Milton Keynes qualsiasi. L’Albion, prima della promozione in Premier datata 2017, vantava già quattro stagioni nella vecchia First Division, tutte a inizio anni ottanta. Epoca in cui il club sfiorò uno storico traguardo, che in Inghilterra ha un particolare valore e significato: mi riferisco alla finale di FA Cup del 1983, persa contro lo United in modo “tragico”. I Red Devils, infatti, non riuscirono a superare il Brighton nel primo incontro (2-2 agguantato dai gabbiani all’87’), rendendo necessario il replay sempre in quel di Wembley, dove però si imposero largamente per 4-0. Curiosità, consultando i tabellini dell’epoca, l’occhio cade sugli spettatori presenti: 99.059 nella prima partita e 91.534 nella seconda. Quarantuno anni fa: immaginiamo lo spettacolo dei tifosi ammassati e senza ossigeno, in barba a qualsiasi regola sulla sicurezza e all’ipocondria che forse in nessun altro luogo europeo raggiungi i livelli di quella inglese. Tutto questo, insomma, per sottolineare la tradizione di un sodalizio che, bene o male, si è sempre barcamenato tra secondo e terzo gradino delle gerarchie calcistiche locali, tornando a conoscere l’enfasi della massima serie – e per la prima volta anche delle competizioni europee – proprio in questi anni.
Come quasi sempre accade a queste latitudini, il giorno della gara per le strade non c’è la benché minima tensione. Orde di romanisti passeggiano a destra e a manca, affollando il lungomare e lasciando ovunque il loro marchio con i più disparati e fantasiosi adesivi. Particolare attenzione viene prestata al negozio Quadrophenia Alley, posto all’angolo proprio con lo stretto e omonimo vicolo dove nel film si svolge la celebre scena di sesso tra Steph e Jimmy. Con la gara in programma alle 20 locali, c’è tutto il tempo per stazionare nei pub o fare avanti e indietro sul lungomare, sebbene con il passare delle ore il cielo da azzurro si faccia sempre più plumbeo, finendo per coprire la città con la più classica delle piogge inglesi. Senza voler entrare troppo in discorsi geopolitici, ammetto che una parte di me riesce anche a comprendere perché la società inglese emani molto fascino al di fuori dei propri confini: la musica, le sottoculture, i movimenti e la stessa cultura da stadio sono innegabilmente un qualcosa di primordiale da queste parti. Sarebbe falso non riconoscere che sotto questi aspetti tanto si è provato a emulare e molto si è esportato. Non solo in Italia. Il vero problema – altrettanto ineluttabile – è che tutte queste sfaccettature sono ormai parte di un passato anche discretamente lontano. A guardarla oggi la società inglese, soprattutto quella dei grandi centri quale Brighton è, appare mestamente omologata, senza una diversità o un qualcosa di “genuino” in grado di spiccare. Profondamente prestata al mondo “dell’immagine” e “dell’apparire”. Sicuramente lontana anni luce da quella narrata in Quadrophenia. È un po’ come se la vocazione colonialista/imperialista a un certo punto abbia voluto ripulirsi la coscienza e cancellare di notte taluni tratti distintivi che da sempre rendono riconoscibile l’isola al di fuori della sua terra. Questa cosa, passatemela, denota sovente una profonda ipocrisia che sfocia nel voler dare patetiche lezioni morali (anche di tolleranza e inclusione) al resto del Mondo.
Quando mancano un paio d’ore al fischio d’inizio è dunque Giove Pluvio a consigliarmi di lasciar stare il mare e dirigermi verso lo stadio. Incamminandomi verso la stazione mi imbatto in qualche temerario tifoso locale intendo a staccare gli innumerevoli adesivi lasciati come souvenir da tifosi italiani. Molti proprio contro il Brighton. Non che ci sia una particolare rivalità, ma ormai è storia vecchia quasi mezzo secolo: quando i romanisti trovano di fronte i sudditi di Sua Maestà l’antipatia è quasi naturale, pertanto cercano in ogni modo di palesarla con fare provocatorio. Ovviamente l’inconsistenza dei supporter indigeni fa sì che praticamente nessuno dia segni di vita, come praticamente nove volte su dieci nel Regno Unito. Mettiamoci anche che i Seagulls non hanno certo una fama temeraria e la tranquillità è presto spiegata.
I ragazzi della Sud si concentrano dando vita a un rumoroso corteo diretto verso la stazione, da dove partiranno i treni per la Falmer Station. Turisti e locali guardano incuriositi il serpentone giallorosso, che tra canti e goliardia si incammina verso il convoglio, finché il treno bianco e verde della Southern Railways non parte giungendo in pochi minuti a destinazione. Lo stadio si staglia immediatamente fuori dalle piccole banchine della stazione, con diversi bobbies che guardano attentamente il passaggio dei romanisti, senza tuttavia creare inutili tensioni. Come sempre – e di questo gli va dato atto – la polizia inglese in queste occasioni non si perde in un bicchier d’acqua e non cede a stupide provocazioni. Il modello inglese, che tanto si mettono in bocca politici e popolino nostrano, su questi aspetti è inappuntabile: il primo obiettivo è prevenire, lavorando con la testa e senza agitazione. Ma soprattutto senza divieti e interdizioni stupide. Dite voi a un qualche funzionario britannico di bandire una trasferta perché “pericolosa”, come minimo vi rideranno in faccia lasciando intendere quanto possa essere idiota tale modus operandi. Ciononostante, va detto che quello che di malevolo non fa la polizia, stasera lo faranno gli steward del Brighton. Primo punto: pur non essendo il biglietto nominativo in Inghilterra, soprattutto in fase iniziale di afflusso alcuni uomini in pettorina gialla si accaniscono con dei ragazzi il cui tagliando non corrisponde al documento (fortunatamente siamo italiani e a determinate, stupide, rigide imposizioni, sappiamo rispondere con astuzia e furbizia… aggirandole e dando credito a un detto romano: “famoli contenti e cojonati”). Secondo punto: per favorire i minuziosi controlli, sempre gli illuminati tizi fosforescenti, pensano bene di ammassare tutti i presenti come sardine e farne passare pochi alla volta. Evidentemente a questi fenomeni, tragedie in stile Sheffield non hanno insegnato nulla. E su questo, duole dirlo, ma sembra una tipica situazione da Italia, più che da servizio d’ordine fatto col cervello e con criterio. Qualcuno entrerà addirittura a partita iniziata, non prima di aver subito l’assalto dei cani antidroga e il relativo, asfissiante, controllo!
Ritiro il mio accredito molto facilmente e come sempre in Inghilterra, oltre al pass, ricevo anche il match program, cosa che da amante della carta stampata – soprattutto in tema sportivo – mi fa sempre piacere, tanto da conservare tutti quelli presi durante le partite fatte in terra d’Albione. Menzione speciale per il buffet: negli stadi inglesi in genere è sempre infinito e caratterizzato dalle più disparate cucine internazionali, qua si limitano ai pie (tipiche tortine di pasta sfoglia britanniche ripiene generalmente di carne), a un contorno di purè, il tutto bagnato dal classico brodo di carne. Una volta tanto pure a queste latitudini hanno voluto dar risalto a un prodotto locale e la cosa mi fa assai piacere, anche perché i pie creano davvero dipendenza! Espletati i compiti “cibari”, posso innanzitutto passare in quello che poi scoprirò essere il tunnel degli spogliatoi, strettamente interdetto al sottoscritto, e osservare varie foto e date storiche relative ai momenti cruciali del club, per poi salire lentamente i gradini che mi portano in tribuna stampa. Il colpo d’occhio è molto bello e Falmer, pur essendo un impianto moderno, non mi sembra, tutto sommato, un casermone finto, senza anima e dedito al consumo iper commerciale del calcio. Certo, siamo pur sempre nel Paese della Premier League, il campionato più ricco e competitivo del Vecchio Continente – lontano parente di quel torneo rude e grezzo di un tempo – e io resto pur sempre quello che prova emozioni di fronte ai nostri impianti più “sgarrupati” e decadenti, ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare: stadio bello, perfetto per vedere il calcio e impeccabile per fare il tifo.
Poco prima che la partita abbia inizio, in basso sulla mia sinistra – dove sembra esser posizionato un gruppetto più movimentato – viene esposto un eloquente quanto patetico striscione “Totti adora la pizza sull’ananas”, che dovrebbe essere la risposta a quello esposto in Sud all’andata per schernire la defunta Regina Elisabetta. Posto che c’è poco da scherzare quando, nei loro panni, qualcuno mette davvero l’ananas sulla pizza pensando anche sia buona (sic!), il messaggio fa capire l’esatta distanza tra noi e loro. Con tutto ciò che avrebbero potuto scrivere per provocare, hanno scelto la quintessenza dei messaggi da scuola elementare, che forse non avrebbe irritato neanche un immaginario Paolino, passato quest’anno dall’asilo alla scuola dell’obbligo. A seguire, con i giocatori che appaiono dagli spogliatoi, i settori di casa si colorano con una coreografia composta dalle iniziali del club, ovviamente preparata dalla società. E non lo dico né con disprezzo, né per critica: questi spettacoli non fanno parte della cultura da stadio inglese e, giustamente, chi frequenta le gradinate in una certa maniera è distante anni luce da tali logiche.
Situazione ambientale: rispetto ad altri stadi britannici, devo dire che a tratti Falmer ha offerto una buona atmosfera. Nulla di organizzato, ma diversi cori spontanei partiti da vari punti dello stadio e seguiti da tutti i presenti. Sicuramente il picco si è raggiunto dopo la rete dell’1-0 (che sarà poi il risultato finale) siglato da Welbeck e sebbene non sia minimamente paragonabile al tifo per novanta minuti dei nostri stadi, sicuramente mi ha fatto una maggiore impressione rispetto a tutte le volte che ho assistito a una partita in quel di Londra. E a questo punto credo che non sia una possibilità. Ho avuto modo di vedere la Roma giocare a Manchester (entrambe le sponde), Liverpool, Leicester e Brighton: in queste cinque occasioni un minimo di ambiente c’è sempre stato. Discorso diverso per Arsenal, Chelsea e Fulham: elettrocardiogramma totalmente piatto. Non so se sia complice una differenza tra metropoli ormai anestetizzata dal tifo turistico e “periferia” ancora minimamente verace, però a questo punto è un dato di fatto. Come da tradizione, invece, molto bene il settore ospiti dove gli ultras romanisti – assiepati dietro la pezza con la Lupa Capitolina – si producono in una prova canora costante e intensa: manate, cori a rispondere e canti tenuti abbastanza a lungo. Sempre molto bello il Roma, Roma, Roma cantato all’inizio e in grado di sovrastare le musichette irrorate dagli altoparlanti dello stadio. Qualche screzio con i settori vicini, ma davvero poca roba. Sicuramente non sufficiente per alzare l’asticella della tensione.
Come detto alla fine sono i padroni di casa a imporsi. Una sconfitta indolore per De Rossi, che col minimo sforzo in questa gara di ritorno, ottiene il massimo risultato approdando ai Quarti di Finale, dove troverà il Milan. Ci sono comunque applausi per la squadra del Maestro De Zerbi (un appellativo che spetta solo ai più grandi, cfr. Zdenek Zeman, Marco Giampaolo o Alberto Cavasin), proprio in virtù dell’esser arrivato laddove qualche anno fa nessuno poteva credere. Anche la Roma viene acclamata sotto al settore, dai sostenitori giallorossi che, stranamente per essere in Inghilterra, vengono trattenuti all’interno dell’impianto abbastanza a lungo. Probabilmente ultima appendice di una giornata poco simpatica in tema di trattamento dei tifosi ospiti.
Dovendo attendere mio fratello e un ragazzo che ci deve accompagnare a Londra, temporeggio in sala stampa bevendo un caldo brodino e sistemando le foto. Una volta usciti ci avviamo verso la macchina, percorrendo una stradina di campagna che metro dopo metro si fa sempre più buia, lasciandoci capire appieno la vocazione agricola di questa zona. A un certo punto gli unici elementi visibili sono la nebbia e qualche faro delle auto che sfrecciano sulla strada. Una situazione inquietante, che però risolviamo con ironia e sarcasmo, fin quando, finalmente, siamo a bordo e possiamo ripartire alla volta della Capitale inglese. Rimango davvero impressionato nel vedere come ci voglia quasi più tempo ad arrivare a Victoria Station una volta entrati nell’area urbana di Londra che a coprire la distanza che intercorre tra essa e Brighton. Ma è lo scotto da pagare con una megalopoli al cui confronto anche Roma è una cittadina di provincia (fortunatamente). È ormai notte inoltrata e non mi resta altro che salire sul bus della National Express diretto all’aeroporto di Stansted. Stremato e assonnato sono arrivato al termine anche di questa trasferta. Magari un po’ compressa, con i tempi stretti e con una caterva di mezzi ancora da prendere, considerato che il mio aereo arriverà a Bergamo e da là proseguirò col pullman, ma complessivamente da non buttar via. Tornato a casa avrò qualche ora per dormire e poi subito diretto a Napoli, per la sfida di basket tra i locali e Pistoia. Parafrasando Ron: “Ho davanti un altro viaggio e una città per narrare…”
Simone Meloni