Avete presente quelle melense commedie americane, con quelle attrici bionde che sembrano tutte uguali, in cui c’è sempre un migliore amico follemente e segretamente innamorato, costretto ad assisterla nel momento dei preparativi al matrimonio?
Quante volte ci è successo di prevedere quel lieto fine, con le marachelle del futuro consorte che vengono pian piano alla luce e la ragazza pronta a piombarsi su quel tipo che, pochi minuti prima, era semplicemente il confidente numero uno?
Tante, mi rispondo da solo.
La Roma in fondo è come uno di questi film per donne che tristemente ingurgitano una vaschetta intera di gelato (non tutte, non sfociamo nel maschilismo), dal sapor di nettare e ambrosia per alleviare le pene d’amore, e uomini così gentili (anche qui, mica tutti, ad alcuni piacciono pure pensate un po’) da non aver la forza di prendere il telecomando e spostare l’attenzione su altri canali. Un finale scontato, la sfortuna in saldo perenne.
Quanti, dopo il raddoppio di Strootman – bentornato Kevin, in rete dopo quasi mille giorni – hanno pensato ad un epilogo dai tratti tragicomici?
Tanti, anche qui la risposta è automatica. Scontata come la realizzazione di Marco “Duemilacinquecentogol” Borriello, ex di turno e quindi investito di un’aura di divina malasorte.
Ci aveva provato nella prima frazione di gioco, perculando un disorientato Manolas – spalle alla porta, non si manda mai sul sinistro uno che gioca solo di sinistro – scontrandosi però contro il muretto eretto dal polacco Szczesny. Ci è riuscito nella seconda metà di gioco, rendendo così meno amara la serata di chi – con occhio lungimirante ed una memoria di ferro – ha deciso di scommettere tutti i propri averi sul sigillo del centravanti campano.
Indorata la pillola con la rete del bomber cagliaritano, con una mezz’ora abbondante da affrontare e i postumi della debacle casalinga contro il Porto, molti romanisti hanno visto aleggiare sull’impianto sardo quelle fitte nubi del passato, scorgendo il volto di un erede di Daniele Conti pronto a mandare di traverso la cena ingurgitata in fretta all’intervallo. E se il figlio del grande Bruno ha ormai abbandonato la Sardegna, c’era qualcuno pronto a raccoglierne la missione: il nome è Marco, di cognome Sau.
Il più basso dei giocatori offensivi della formazione di Rastelli (171 centimetri, tacchetti inclusi) capace di schiaffare in rete il pallone con un preciso colpo di testa, solo in mezzo al trio Manolas-Fazio-Vermaelen (rispettivamente 189, 195 e 183 cm) e al cospetto di un estremo difensore autore di un’uscita degna del Teatro Wielki Opera Narodowa di Varsavia, regalando così al Cagliari un meritato pareggio.
Era il 2010, per l’esattezza il 6 gennaio, quando la Roma di Claudio Ranieri si faceva bagnare il naso dalla compagine sarda, abile a rimontare il doppio vantaggio in seguito al rigore di Pizarro e alla rete di Perrotta, grazie all’uno-due nei minuti di recupero realizzato da Lopez e Conti. Sono passati quasi sette anni, cambiati gli allenatori, i giocatori (uno solo di quelli di ieri era in campo allora) e la dirigenza. Eppure il Dna rimane lo stesso, schizofrenico, folle, misto a quella masochistica predisposizione naturale al suicidio sportivo. Che tanto ci piace mi verrebbe da dire.
Perché in fondo il tifoso della Roma a tutto questo è abituato, le delusioni l’hanno plasmato demiurgicamente e con queste zavorre ha incominciato dozzine di settimane, presentandosi a scuola o a lavoro il lunedì mattina con la faccia di chi ha un conto aperto contro gli dèi del calcio.
Ma se il romanista di vecchio stampo è già proiettato con la mente alle prossime sfide e ad una trasferta in terra ceca – destinazione Plzen – con lo zaino pieno di speranze e un sogno chiamato Solna – perché la Roma è come una moglie e anche se per una notte si dorme sul divano, mica la si abbandona; altri già hanno manifestato il loro dissenso, annunciando la discesa dal carro dei “campioni d’agosto” e la volontà di non recarsi più alle partite – quelle casalinghe, fuori le Mura aureliane probabilmente non han mai messo piedi per sostenere il giallo e il rosso.
Si prospetta così un ennesimo flop nella vendita libera dei biglietti per il bunker Olimpico, considerando inoltre l’impossibilità per molti abbonati di entrare in quello che, un tempo assai vicino, era un tempio pagàno a cielo aperto, luogo dove professare una fede di gruppo fortemente invisa ai fautori della safety.
Quei ragazzi che domenica sera si sono recati a Cagliari nonostante un’estate ormai agli sgoccioli, accantonando la possibilità di godersi un ultimo weekend di relax, e che hanno sostenuto la squadra fino all’ultimo istante, nonostante una prestazione che ha fatto emergere tutta una carenza di personalità ben descritta dal tecnico Luciano Spalletti, continuano il loro esilio forzato.
Pochi dalla loro parte e una battaglia di diritto ormai persa al cospetto di un avversario imbattibile e nettamente più potente, soprattutto considerando la quasi totale assenza di solidarietà da parte dei “colleghi” dei settori non colpiti dalla scure di boia che hanno un nome e un cognome. Questa è la grande delusione di questo inizio di stagione, molto più di una eliminazione dalla Coppa Campioni e un pareggio in trasferta al cospetto di un avversario piuttosto ostico.
La Roma infatti non è più una comunità, ma un insieme di fazioni in cui vige il dogma dell’obbligatorio allontanamento del pericoloso ultrà. Etichettati come “il male del calcio” e “fottuti idioti” e chi più ne ha più ne metta, vagano come raminghi da uno stadio italiano all’altro e in giro per l’Europa; ma non possono tornare a casa. Non possono perché la Roma è la cosa più importante, ma delle cose non vitali. E la libertà di partecipare ad un evento sportivo senza perquisizioni, scannerizzazioni del volto alla mercé del peggior terrorista, divieti di ogni sorta, vale molto di più; poiché queste misure minano le fondamenta di una piccola comunità di scalmanati capaci però, nell’incredulità di molti, di esporre uno striscione in favore delle sfortunate vittime di una tragedia che ha logorato il cuore di noi tutti (Forza Amatrice, ndA).
Evitando di sfociare in una retorica spicciola e sminuire così la portata del dolore di molte famiglie, avrei gradito dai media nazionali una, dico una mezza riga in cui si informava l’umana gente dell’operato dei “cattivissimi” ultrà, dalle Alpi allo Stretto, capaci di attivarsi come una grande famiglia per aiutare persone in difficoltà.
Questa è l’essenza dell’aggregazione.
Lei, l’unica vincitrice della partita andata in scena in una calda e splendida serata di fine agosto che può regalare una terra meravigliosa come la Sardegna.
Da un lato il tifo passionale di una città fiera delle sue tradizioni, a cui qualche telecronista non ha però risparmiato un duro attacco per un fumogeno lanciato in campo in seguito ad un rigore non concesso, episodio che come una madeleine di Proustiana memoria ha risvegliato in me i ricordi di un vecchio Konsel alle prese con gli attaccanti laziali e i fumogeni che zampillavano sotto i suoi piedi. Ricordi di bambino, quando il calcio era uno spettacolo da stadio, non da prima serata.
Dall’altro lato una tifoseria che, come tante altre, ha manifestato in pieno la forza di una comunità, in barba a chi li vorrebbe divisi e omologati ad un paese individualista che si riscopre tale solo in occasione di tragedie, per poi dimenticarsi tutto al primo argomento di rilievo da trattare nei salotti televisivi.
Gianvittorio De Gennaro.