Per raccontare questa partita occorre fare un passo indietro di un mese e mezzo. Si tratta della prima di cinque “puntate” di un piccolo tour che mi ha visto protagonista tra Belgio, Germania e Francia. Cinque racconti che arrivano “tardi”, con l’intento di offrire una narrazione articolata e senza l’obbligo di “correre” per stare al passo con i tempi e lasciar indietro aneddoti, dettagli e personaggi. Per raggiungere la prima tappa, in quel di Bruges, il mio viaggio comincia poco dopo la mezzanotte, quando mi reco alla stazione Tiburtina e salgo sul Flixbus per Napoli, da dove – alle prime ore dell’alba – partirà il mio aereo per Charleroi. Il primo teatrino si consuma proprio alle falde del Vesuvio: come sempre, per evitare il turistico Alibus, opto per una delle soluzioni alternative. In questo caso, essendo le quattro del mattino, c’è il mitico 920 per Arzano a custodire la mia “calata” sullo scalo partenopeo. Peccato che, a causa dell’illuminazione stradale non funzionante, il primo tiri dritto senza fermarsi e il secondo, dopo avermi visto praticamente a centro strada per fermarlo, mi apre le porte, con il conducente che comincia una ramanzina infinita su quanto sia stato pericoloso il mio gesto, salvo poi rendersi conto di come non avessi altra scelta! Sta di fatto che in pochi minuti sono a Capodichino e, dopo una sontuosa colazione a base di frolla, posso portarmi verso gli ingressi e superare i controlli. E ovviamente lasciarmi andare a un paio d’ore di sonno durante il viaggio.
Pur non essendo un appassionato di tifo belga e olandese, sono sinceramente curioso di metter piede nella casa del Club Brugge, storico club delle Fiandre Occidentali. A queste latitudini c’è spesso “movimento” nelle partite internazionali e, inoltre, i supporter nerazzurri hanno una discreta nomea in fatto di turbolenze. Ne ho un vivido ricordo legato alla Coppa UEFA 2005/2006, quando a Roma provarono coraggiosamente il numero (trovando poi pane per i loro denti). Come sempre la Conference offre molti spunti dal punto di vista ambientale e, malgrado insuccessi e delusioni sportive, l’aver partecipato a questa kermesse nelle ultime due stagioni ha senza dubbio forgiato e dato esperienza ai viola. Incontro il primo capannello di tifosi gigliati all’uscita dell’aeroporto, quando assieme a loro salgo sul pullman per Bruges. Dopo dodici anni torno in questa città, a cui ho legato bei ricordi, di una vacanza durata qualche giorno, toccando le più importanti mete del Paese. Di certo, all’epoca, mai avrei immaginato di tornarci per motivi sportivi e forse neanche potevo ipotizzare di trovarmi in campo per una semifinale europea, con una squadra italiana protagonista. Ammetto che pur conservando sangue freddo e una discreta dose di indifferenza in queste situazioni, se mi fermo a rifletterci mi fa un po’ di suggestione. Una volta arrivato a destinazione e intavolata un’infinita discussione con la ragazza della reception, che non vuol credere alla sua vista quando le mostro una spina italiana dotata di tre spinotti e quindi inutile per le prese locali, lascio il mio bagaglio e non avendo tantissimo tempo a disposizione programmo velocemente la giornata: giretto in centro e poi dritto allo stadio Jan Breydel. Il clima in città è di totale preparazione alla festa del Sacro Sangue, ricorrenza attesissima che si celebrerà dopo due giorni e che ha costretto la Uefa ad anticipare al mercoledì la sfida. Turisti e locals camminano con abiti alquanto leggeri, mentre li guardo irritato: non avendo calibrato bene gli indumenti da portare – come sempre – con il passare del tempo comincio a rimpiangere almeno una felpa o una giacca più pesante. Evidentemente nel cervello proprio non mi vuol entrare il basilare concetto che quando si superano le Alpi la colonnina di mercurio tende a scendere. Cerco di andare talmente oltre gli stereotipi che a volte finisco per confonderli con verità incontrovertibili! Il vento che di tanto in tanto spira forte e rigido mi ricorda che siamo ad appena quindici chilometri dal mare, una posizione che per diversi secoli ha fatto le fortuna della città, in particolar modo grazie alla presenza del canale Zwin, che collegava Bruges al Mare del Nord, favorendone i commerci con la Francia e l’Inghilterra, oltre che l’esportazione e la crescita della locale industria tessile. Per comprendere la ricchezza di una città che nel XV secolo era arrivata a contare oltre 40.000 abitanti, è sufficiente pensare che nel suo porto attraccavano regolarmente navi genovesi e veneziane, dando vita a un importante mercato di spezie. Il flusso di denaro che la riguardava rese possibile la creazione della prima borsa valori al Mondo. L’insabbiamento dello Zwin nel XVI secolo e numerose guerre (tra cui quella dei cent’anni tra Francia e Inghilterra) che la videro protagonista, procurarono un lento ma inesorabile declino di Bruges, che soltanto nel XX secolo conobbe una nuova e fiorente era, anche grazie alla costruzione del porto di Zeebrugge. A testimonianza dello sfarzo e della sua importanza geopolitica, oltre agli incantevoli scorci prodotti dalla fitta rete di canali che la “trafiggono” in lungo e largo, resta la bellissima Piazza del Mercato – dove si staglia il Beffroi, campanile alto 82 metri e dotato di 47 carillon – il Burg, che essendo il nucleo antico della città comprende le costruzioni e le chiese più antiche, e in generale un’architettura che personalmente ho sempre ritenuto la più bella del Belgio. Benché in questi posti, belli e al limite della perfezione, provi sempre una piccola sensazione di inquietudine mista a disagio. Ma sono ben consapevole che ciò è figlio del mio essere nomade e profondamente disordinato, in difficoltà, dunque, nell’accettare che buona parte del Mondo possa vivere e agiarsi nella quasi perfezione. Altro aspetto particolare è quello linguistico: con ben noto il Belgio è diviso nella zona vallona (francofona) e in quella fiamminga, dove si parla una lingua molto vicina all’olandese e al tedesco. Bruges ricade in quest’ultima, tanto è vero che il primo nome con cui la locale squadra è conosciuta è Club Brugge Koninklijke Voetbalvereniging.
E qua si apre la lunga e articolata parentesi calcistica. Cominciamo con il dire che Bruges è una città che mastica football da oltre un secolo. Le due squadre cittadine, il Club e il Cercle, vantano natali antichissimi, essendo state fondate rispettivamente nel 1891 e nel 1899, giocando entrambe le proprie gare interne allo stadio Jan Breydel, intitolato all’omonimo condottiero delle Brugse Metten, le rivolte fiamminghe contro il governo francese di Filippo Il Bello nel 1302, culminate con un massacro compiuto da questi ultimi nei confronti della popolazione locale. I Blauw en Zwart sono, dopo l’Anderlecht, la squadra più titolata del Paese, con ben 19 scudetti, 11 Coppe del Belgio e 17 Supercoppe. In campo europeo il grande successo è stato sfiorato in due occasioni, con le finali di Coppa dei Campioni e Coppa UEFA perse entrambe con il Liverpool rispettivamente nel 1978 e nel 1976. Un sodalizio che, quindi, può vantare una discreta tradizione e che sogna la finale di Atene, per riportare dopo tanti anni in auge il calcio nazionale. Avvicinandomi allo stadio, i tifosi si fanno sempre più numerosi, con pub e bar presi d’assalto e la tipica atmosfera da partita nord europea. Si fa sempre fatica ad analizzare questo genere di tifoserie. Prendendo in analisi il blocco belga e olandese, forse gli unici ad aver dato un’importante sterzata ultras sono stati quelli dell’Ajax – seppur mantenendo una notevole struttura “spontaneista” e più impegnata a creare turbolenze -, mentre nelle restanti piazze resta quella commistione con l’hooliganismo, che spesso prevale, andando a riprendere tout court il modello inglese e mantenendolo, a loro modo, vivo nella sua anima più retrò. Benché da un punto di vista ambientale questo renda gli stadi tutt’altro che spettacolari e “calienti”, similw approccio fa sì che sulla carta le trasferte a queste latitudini non siano mai passeggiate. Devo dire che la sensazione provata ogni volta è di luoghi in cui vigono poche regole e dove se possibile si va a colpire il nemico senza troppi complimenti. Certo, va detto che da buoni filo britannici, quando oltrepassano i confini nazionali (e in particolar modo quando arrivano nel Belpaese) spesso fanno a dir poco fatica, incappando in figuracce di dimensioni cosmiche (vedasi il pre partita di Fiorentina-Twente dello scorso anno). Tuttavia quest’oggi anche il sottoscritto saggerà la “tigna” dei tifosi autoctoni. Ovviamente con grande approvazione e non certo sciogliendomi in inutili lacrimucce o recriminazioni: il fattore campo è un valore per il calcio e onore al merito di chi tenta ancora di farlo rispettare.
L’impianto già da fuori sembra essere molto interessante. Piccolo e raccolto, ristrutturato in occasione degli Europei del 2000 ma ancora ben legato alla propria identità. Prima dì entrare, tuttavia, classico “sbrocco” con gli steward: nessuno mi sa indicare dove possa ritirare il mio accredito e, dopo avermi fatto girare a vuoto mezz’ora, in autonomia scorgo la scritta “Media”, rivolgendomi in rigoroso slang romano agli uomini in pettorina gialla, perché in talune occasioni solo il dialetto può ben esprimere lo stato d’animo. Quando finalmente riesco ad accedere sul manto verde, manca meno di un’ora al fischio d’inizio e le gradinate si stanno riempiendo. La bella impressione avuta dall’esterno, trova conferma e devo ammettere che la struttura del Jan Breydel è davvero carica di fascino. Sembra uno di quei vecchi stadi inglesi: perfetto per il calcio e per far sentire il fiato sul collo ai giocatori. Diciamo che un simile impianto con all’interno una tifoseria italiana o balcanica, sarebbe il non plus ultra. La mia presenza a bordocampo provoca inizialmente molta ilarità tra i tifosi assiepati nelle ultime file della tribuna: in particolar modo una signora, armata di sciarpa e birra, mi chiede ripetutamente di fotografarla. Io, dopo aver immortalato anche la mascotte travestita da orso, mi sento in dovere di assecondare i suoi desideri. Tutti sembrano divertiti dal fatto che io sia lì e addirittura gentili. Classica situazione in cui al primo gol preso o a un fallo più irruento da parte degli avversari, gli umori si ribaltano completamente. E così, infatti, accadrà. Ma andiamo con ordine. La tribuna attigua alla mia posizione non è un settore qualunque, ma il luogo dove il VAK 313 mette le proprie pezze. Si tratta di uno storico gruppo di stampo hooligans/casual, a differenza del gruppuscolo presente nella curva alla mia destra, che per tutta la partita tenterà di tifare costantemente, all’italiana. Una netta minoranza, che nei maggiori momenti di coinvolgimento riuscirà a portarsi dietro massimo duecento persone. Una situazione classica per queste latitudini, con la maggior parte del pubblico che tuttavia seguirà la gara in piedi, sintomo di quella veracità guidata da una “loro” attitudine da stadio a cui facevo riferimento in precedenza.
Quando le due squadre entrano in campo, curva e tribuna di casa si esibiscono in una scenografia. Sicuramente ben riuscita, nulla da dire, ma che mi fa tornare in mente la solita domanda: essere o apparire? Mai come in queste occasioni, infatti, le scenografie sono perlopiù limitate a rapire la scena iniziale, per poi risaltare nei momenti successi tra social e televisioni, intenti a descrivere “il grande pubblico di Bruges”. Ma se in seguito a questo spettacolo – ripeto, ben realizzato – il tifo è scadente, poco coinvolgente e sicuramente non continuo, cosa c’è realmente da esaltare? E me lo chiedo anche facendo il paragone con la “semplice” sciarpata eseguito dai viola contemporaneamente. Sciarpe tese che fanno ovviamente da prologo alla prestazione canora, che non può prescindere dalla buona riuscita dei primi minuti. La differenza tra il nostro modello e questi ibridi sta tutta qua: intensità e pochi fronzoli, contro apparenza e legittimo (ognuno ha il suo, ci mancherebbe) quanto evanescente hooliganismo con mire ultras. Attenzione: lo stampo british cui strizza l’occhio la tribuna di Bruges, è ben più rognoso e rude di quello attualmente vigente negli stadi d’Oltremanica. Do atto ai supporter belgi di seguire le fasi di gioco con concitazione, urlando e insultando. Producendosi in una bella esultanza quando i padroni di casa passano in vantaggio, nella fasi iniziali. Mentre sono intento a scattare il settore ospiti, li vedo più volte sbracciarsi nei miei confronti, lentamente i sorrisi accondiscendenti si trasformano in sguardi poco tolleranti e infastiditi. E in fondo già so che arriverà il momento in cui dovrò cambiare aria. Al duplice fischio mi concedo un giro dello stadio lungo tutto il suo perimetro e non posso fare a meno di osservare lo striscione Wild Kaos, che richiama palesemente a quello più celebre che fu dello storico gruppo atalantino. Prima che la seconda frazione inizi, noto che molti ragazzi si stanno incappucciando, prendendo in mano torce e fumogeni. Intesa la loro intenzione mi posiziono dietro la porta adiacente al settore ospiti e osservo a tuttotondo lo spettacolo pirotecnico con cui curva e tribuna accolgono nuovamente le due squadre. Nulla da dire, da un punto di vista scenico tanta roba, soprattutto se si pensa che siamo in una semifinale europea e che la UEFA si è sempre espressa contro questo genere di situazioni. Tuttavia, anche dall’alto del mio amore incondizionato per i pyro show (come va tanto di moda chiamarli oggi), la domanda torna prepotente: essere o apparire? Perché va da sé che una volta diradatasi la coltre di fumo, tutto torna a essere come in precedenza: massimo duecento volenterosi a tifare in curva e una tribuna, sì rumorosa e fastidiosa, ma che di certo non trascina il resto degli astanti.
In campo la partita è combattuta, con la Fiorentina che – come al suo solito – riesce a complicarsi la vita, non trovando una rete del pareggio che, in virtù del 3-2 maturato al Franchi, rimetterebbe l’inerzia da parte dei toscani, ma, anzi, rischiando anche il 2-0 in un paio di occasioni. Nonostante abbia di fronte una squadra non propriamente imbattibile. I sostenitori di casa sanno che bisognerà giocare sporco per superare un ostacolo più grande di loro e dalle tribune comincia a piovere in campo anche qualche oggetto. Anche i tifosi gigliati hanno una consapevolezza: debbono essere loro a prendere per mano l’undici di Italiano e portarlo laddove proprio non riesce. Se nel primo tempo manate, cori intensi e colore erano stati su ottimi livelli, nel secondo la Fiesole formato trasferta ingrana proprio la sesta e cerca in tutti i modi di soffiare sul pallone: i ragazzi con i megafoni urlano e fomentano i presenti, mentre i gruppi disposti su tutta la balaustra danno una mano cercando di coinvolgere dalla prima all’ultima fila. Un paio di tormentoni fanno breccia nelle ugole viola e il tifo che ne esce fuori è davvero di ottima fattura. Io, che sto là per i tifosi, ovviamente mi concentro su di loro e la disapprovazione verso di me aumenta alle mie spalle, tanto che ormai ogni due secondi sento scandire la parola “Italiano” seguita da ovvi insulti in fiammingo. E vi assicuro che non ce l’hanno con l’allenatore (sic!). Un vaso che già di suo sta vacillando, viene definitivamente fatto traboccare all’85’, quando il direttore di gara assegna un calcio di rigore alla Fiorentina. Dal dischetto va Beltran e non sbaglia, impazzendo di gioia sotto il settore ospiti, che nel frattempo si mette in evidenza con un’esultanza notevole e comprensibile, condita anche da qualche torcia (cosa che non guasta mai). Da questo punto in poi sono costretto ad abbandonare la mia postazione, considerato che ognuno è libero di scavalcare e far valere la propria rabbia per il gol preso. Nulla di male, sia chiaro. Anzi, essendo prima di tutto tifoso anche io, posso solo comprendere lo stato d’animo. Mi limito a portarmi proprio sotto al settore ospiti, che a questo punto suggella la grande prova di tifo saltando e cantando fino al settimo minuto di recupero, quando l’arbitro sancisce la fine delle ostilità, nonché l’approdo della Fiorentina alla seconda finale di Conference consecutiva, dove troverà l’Olympiakos. Ovviamente la grande gioia degli oltre mille tifosi toscani fa da contraltare alla delusione del pubblico belga, che tuttavia applaude i propri giocatori. La pezza per i Diffidati viene issata al cielo e tenuta per svariati minuti, quasi a voler rimarcare come questa vittoria sia per loro. Mentre è sempre bello vedere orde di ragazzi arrampicarsi sulla rete in stile ragno per urlare a tutto lo stadio la propria soddisfazione. Mi concedo gli ultimi minuti a centrocampo, con lo stadio che si vuota e i viola che restano unici protagonisti a cantare per loro stessi e per Firenze. Sicuramente, rispetto a quanto si potesse pensare, per loro si è trattata di una delle trasferte più tranquille di questi ultimi anni. Il servizio d’ordine peraltro si è dimostrato davvero inflessibile, “impacchettando” il contingente italiano e rendendo impossibile qualsiasi movimento al di fuori di quelli prestabiliti. Da esperienza dico che la polizia belga (ma anche quella olandese) è tra le meno simpatiche da trovarsi di fronte in Europa. Modalità e modus operandi ben diversi dai colleghi tedeschi e soprattutto da quelli inglesi. Oltre a una “facilità di arresto” davvero incredibile, come ben ricorderanno proprio i fiorentini, che lo scorso anno ad Enschede subirono ventotto arresti la sera prima della partita, a margine di disordini scoppiati soprattutto a causa delle negligenze delle autorità olandesi.
La mia serata si conclude in sala stampa dove, dopo aver sorseggiato qualche birra, decido di avviarmi verso l’ostello. Il mattino seguente il mio pullman per Colonia partirà alle 9:30. La destinazione finale è Leverkusen, per la semifinale di ritorno d’Europa League tra il Bayer e la Roma. Gli esiti sportivi di tutte queste gare li sapete bene, così come quello della finale di Atene, con la Viola ancora una volta sconfitta. Non resta, come detto in fase di avvio, che raccontare queste giornate per lasciare incastonati ricordi e narrazioni su un foglio, seppur virtuale. Il racconto di un’esperienza resta un qualcosa di perennemente attuale e le sensazioni non meritano di rimanere circoscritte solo nella mia mente. Concludo con la passeggiata, prima della partenza, per le vie di una Bruges alle prime ore del mattino. Riguardo i suoi palazzi e i suoi canali, mi riviene in mente la chiacchierata con un vecchietto francese, tanti anni prima, proprio sulla banchina del canale Augustijnenrei. Nella sua armonia ci tenne a dirmi quanto fosse bello godere della libertà di camminare in un luogo così bello senza nessuna pressione proveniente dalla vita. Lasciandosi alle spalle quanto di bello e quanto di brutto aveva vissuto fino a quel momento. Sono quelle chiacchiere estemporanee che ti rimangono dentro e ritornano prepotentemente anni dopo, perché in fondo ti hanno lasciato una sensazione di libertà, ma anche di latente nostalgia. Sono umori che chi viaggia con costanza conosce e comprende. E che si alternano, a volte creando una notevole sensazione di caos. Intanto ho raggiunto il mio Flixbus (e che ce lo facciamo mancare?), che in breve tempo partirà, quasi vuoto. Chiudo gli occhi, non servirà mostrare la carta d’identità per superare il confine con la Germania. E allora potrò addormentarmi in un Paese e svegliarmi in un altro. Anche questa è libertà!
Simone Meloni