Più che nell’incrocio tra gemellaggi e rivalità (in cui i messinesi giocano inevitabilmente un ruolo fondamentale), a fungere da ago della bilancia per l’acuirsi della reciproca antipatia tra ciociari e siciliani è sicuramente la finale di ritorno del playoff per la A datata 16 giugno 2018, quando i giallazzurri – battendo all’inglese gli avversari – conquistarono la loro terza partecipazione al massimo campionato calcistico. Una sfida che lasciò dietro di sé un’infinità di polemiche tra le fila palermitane per le innumerevoli perdite di tempo da parte dei giocatori frusinati. Cose che – non me ne voglia nessuno – fanno parte di questo sport e che, anzi, contribuiscono (fortunatamente) a renderlo ancora inviso ad alcuni buoni salotti, nonché motivo di scontro campanilistico e terreno fertile per quel pizzico di antisportività che la maggior parte di noi approva in quanto parte integrante dello spettacolo. Sta di fatto che negli ultimi anni questa sfida, almeno sugli spalti, è sempre stata avvincente e carica di significati su ambo i fronti. Anche in questo venerdì sera, malgrado l’andamento claudicante del Palermo e quello disastroso del Frosinone (attualmente ultimo), gli spalti sono gremiti da 10.683 spettatori, di cui 649 rosanero.

Il traffico congestiona, come sempre, la Monti Lepini e avvicinarsi allo Stirpe con la propria automobile rischia di essere un’impresa da titani. Fortunatamente non mi pongo quasi mai questo problema, avendo anticipato da anni qualsiasi Greta Thunberg del caso e preferendo il trasporto pubblico – specie se su rotaia – alla macchina. Anche stasera, con il mio lento ma puntuale regionale, arrivo nel capoluogo ciociaro un’oretta prima del fischio d’inizio, giusto in tempo per concedermi una passeggiata ed entrare comodamente sugli spalti. Pur essendo la millesima volta che metto piede al Casaleno e non nascondendo la mia nostalgia per il tempio che fu il Matusa, nel percorso mi perdo in alcune considerazioni: rispetto ad altri impianti moderni, a Frosinone hanno avuto la fortuna di non trovarsi il nuovo stadio distante chilometri dal centro cittadino; tutto sommato, lo Stirpe, è raggiungibile anche a piedi, evitando gli ingorghi di cui sopra. Questo perché insiste su un terreno dove un nuovo impianto era stato progettato e in piccola parte già tirato su oltre quarant’anni fa, tanto che attorno al suo perimetro, ancor prima che venisse inaugurato, già c’erano alcuni esercizi, tra cui pizzerie e alimentari. Quest’ultima cosa – e qui nasce la mia seconda considerazione – fa sì che il giorno della partita imperversino chioschetti e bancarelle ben diverse da quelle che, per esempio, si vedono a Roma o Milano: da evitare come la peste per cibo scadente e prezzi alle stelle. Qua ancora si vendono prodotti locali, unti e bisunti, a costi accettabili. E ciò contribuisce senza dubbio a fare aggregazione e comunità nel pre partita. Certo, lo ripeto, non è il Matusa. Non lo sarà mai. Ma rispetto ad altri stadi contemporanei, mantiene un minimo di cordone ombelicale con la città. Semmai, volendo proprio fare un’analisi terra terra, il vero problema sta in una Nord a volte troppo grande e dispersiva, ma questo è un altro tema.

Gli ultimi venti anni a Frosinone sono stati un vero e proprio crocevia dal punto di vista sportivo. I giallazzurri hanno conquistato tre volte la Serie A, ma soprattutto – salvo tre campionati – hanno sempre mantenuto la cadetteria, disputando campionati di livello, consolidando il club come uno tra i più organizzati e lungimiranti della categoria. Indubbiamente il lavoro fatto da Maurizio Stirpe ha cambiato per sempre la storia sportiva di una città e fatto sì che nuove generazioni si avvicinassero alla squadra e allo stadio, rendendosi protagonista di una semina fondamentale per un luogo che sta ad appena un’ora da Roma e a circa novanta minuti da Napoli. Ecco perché oggi, con il Frosinone ultimo, a distanza di svariati anni dall’ultima volta, qualcuno si chiede se la politica sportiva e societaria utilizzata fino a oggi possa essere ancora vincente o rischi di trasformarsi in un pericoloso boomerang, soprattutto in seno a un campionato insidioso come questo. La dolorosa retrocessione dello scorso anno, maturata al termine di un catastrofico girone di ritorno, ha lasciato ferite difficili da rimarginare in breve tempo e psicologicamente è senza dubbio complicato passare in pochi mesi dall’exploit in Coppa Italia sul campo del Napoli allora Campione d’Italia, alle sabbie mobili della zona retrocessione in Serie B.

Quando la gara sta per avere inizio, nel settore ospiti sono presenti solo gli UCS, mentre la Nord accoglie l’ingresso delle due squadre con una bella sbandierata nella zona centrale e sciarpe tese nel resto del settore. Sia sulle pezze dei Frusinati che su quelle degli Uber Alles sono presenti drappi messinesi, col chiaro intento di provocare gli avversari. Così, al decimo minuto, quando gli ultras della Curva Nord palermitana (sia inferiore che superiore) entrano, uno dei primi cori che prende corpo tra i tifosi ciociari è proprio in favore dei gemellati peloritani. I rosanero sistemano tutte le loro pezze – tra cui spiccano diversi vessilli romanisti – e poi danno il la alla loro magistrale prova di tifo.

Se in campo le due squadre si rispondono a breve giro di quadrante, andando negli spogliatoi sull’1-1 e finendo praticamente di giocare, in preda alla paura di perdere, sulle gradinate i siciliani confermano quanto di buono fatto vedere negli ultimi anni. Non me ne voglia nessuno, soprattutto le generazioni più vecchie, ma personalmente credo che dopo tantissimi anni, finalmente gli ultras del Palermo abbiano trovato una loro quadra in fatto di tifo, estetica, numeri in trasferta e posizionamento all’interno dello stadio. Il blocco unico formato dai gruppi della Nord restituisce una bella immagine di sé grazie al materiale mediamente curato, ai bandieroni sempre al vento e alla bella sciarpata finale, ma soprattutto si rende protagonista di una prova canora maiuscola. Senza un attimo di sosta, addirittura durante parte dell’intervallo. Mani, voce, cori a rispondere, colore, un paio di tamburi che non sovrastano i cori ma li accompagnano e tante torce accese durante l’arco della partita. Non mancano ovviamente i cori contro i padroni di casa e quelli contro i nemici di sempre catanesi.

Per quanto riguarda la curva di casa, nel primo tempo i giallazzurri si producono in un’ottima performance, fatta di cori tenuti a lungo e belle manate. Forse, nella ripresa, con la gara che si protrae stancamente verso il pareggio, l’intensità cala. Un fatto dovuto anche – come detto in avvio – alla grandezza di un settore che non sposa appieno l’attuale disposizione dei vari gruppi ciociari. Probabilmente un avvicinamento generale, nella parte centrale, gioverebbe alla grande al tifo, lasciando nelle “ali” della curva il pubblico meno caldo e più interessato alle fasi di gioco. Ovviamente so bene che dietro ogni disposizione curvaiola ci sono scelte e logiche dei gruppi, quindi lungi da me giudicare dall’esterno in modo superficiale e tanto per il gusto di farlo. Ma senza dubbio ciò che più manca del Matusa è quella vicinanza fisica a cui la vecchia curva praticamente obbligava, fungendo da collante e riuscendo letteralmente a “contagiare” anche il vicino più svogliato nelle fasi di tifo.

Al triplice fischio ci sono fischi da ambo le tifoserie, per un risultato che scontenta veramente tutti. Dopo le ultime schermaglie e invettive, lo stadio comincia a svuotarsi, con un fastidiosissimo freddo che cala prepotente sulle gradinate. Nel settore ospiti ci sarà da aspettare ancora un po’ prima di favorire il deflusso, mentre al di fuori della curva di casa riprende il viavai nei baretti e nei chioschi, con birre, salsicce e ciambelline al vino che la fanno da padroni incontrastati. Perché almeno quello spirito genuino del capoluogo, che nella sua anima non si è ancora piegato alla concezione di vita metropolitana, sembra resistere. E finché sarà così ci sarà sempre speranza per trasmettere autenticità e senso di appartenenza.

Simone Meloni