Ci sedemmo dalla parte della Roma. Anzi, decidemmo di rimanere in piedi perché in questo modo ci è sempre piaciuto guardarla. Alla nostra maniera.
Dalla parte di chi vince raramente, di quelli che imprecano ed inveiscono contro gli dèi del calcio, che il lunedì mattina li riconosci da un sguardo.
Una scelta priva di senso logico, se logico è il tragitto con il vento a favore e il mare piatto come una tavola.
Abbiamo preferito le salite ardite, franando a valle tante di quelle volte da sbattere violentemente il muso a terra; così tanto da non cambiare mai idea.
Francesco Totti è così, uno di noi.
Indossare quei due colori, solo quelli per tutta una carriera, l’ha reso uno di quelli che scelgono senza logica. È rimasto per vincere (poco), ma soprattutto per provarci, spesso senza riuscirci; c’era quando rischiavamo una clamorosa retrocessione in Serie B ed è uscito dal campo una miriade di volte dopo una cocente, amara, tipicamente romanista e memorabile sconfitta.
E aveva i nostri stessi occhi, gli stessi dolori dell’anima.
Non per mera delusione sportiva, ma in quanto speranza svanita, sogno uscito dal cassetto, palesatosi mentre però la stanza già era avvolta dalle fiamme.
E ancora scudetti persi e secondi posti da “vorrei, ma non posso. È la mia natura”.
E lacrime, mani giunte in preghiera e litigate; tante, come in ogni rapporto speciale.
Il supereroe di almeno due generazioni di bambini, la figurina Panini più preziosa, quella che finisce nel portafogli quando si diventa grandi, il poster sopra il cuscino a protezione dei pensieri notturni, lo sfondo del telefonino.
Francesco Totti è e sarà tutto questo, per sempre.
Ma ogni favola ha un “poi”, anche se raramente ce l’hanno raccontato quando eravamo piccoli. Quando finisce una storia, inevitabilmente ne ricomincia sempre un’altra.
E così per quella di uno dei più grandi calciatori italiani di sempre (il migliore, ndA), il bambino di maggior talento da quando la prima arancia ha rotolato fra i primitivi vicoli di una neonata Urbe, generando in qualcuno l’istinto primordiale di calciarla.
Il “poi” di Francesco Totti, nato fra le vie di San Giovanni il 27 settembre di quarant’anni fa, è iniziato da diverso tempo.
Almeno da quando il ragazzino prodigio è stato per la prima volta utilizzato come arma per dividere, separare in compartimenti stagni e spezzettare la tifoseria romanista in miriadi di fazioni; per non parlare di chi ha fatto carriera sfruttando la sua aura (vi risparmio l’elenco, vien da solo).
In assenza di polemica alcuna, con il numero 10 regolarmente in campo nelle ultime mediocri apparizioni della Associazione Sportiva Roma nonostante una carta d’identità che dovrebbe dire altro, ci han pensato bene a come infangarne i festeggiamenti, a come inserire la punta del coltello in una sanguinante ferita che sta lentamente facendo a pezzi la Roma, provocando una slavina incontrollabile sulle spalle del tecnico giallorosso, Luciano Spalletti.
Una “rosea” intuizione, quella di intervistare “Lady Totti”, al secolo Ilary Blasi, showgirl, ex valletta, ex letterina, chiedendole con fare maligno di parlare ancora una volta del passato, al fine di ottenere un risultato. Quel risultato che sa tanto di gossip da giornaletto di cronaca rosa, un esito che dovrebbe essere deontologicamente lontano, lontanissimo dall’operato di un giornalista sportivo imparziale e di una testata fra le più importanti del Vecchio Continente.
Il modello inglese, ancora una volta quello sbagliato, anche in ambito giornalistico.
Fratelli contro. Ventiquattro ore di fazioni, Totti o Spalletti, Spalletti o Totti, Ilary o Pallotta, Ilary o Spalletti. E discussioni al bar, litigate in radio, pareri di questo e quell’altro e domande senza risposte e risposte senza domande.
Chi ha ragione?
La Roma, ovviamente.
Quella Roma bistrattata e martoriata da una disamistade creata a tavolino per qualche dozzina di copie vendute in più.
È sempre stato così quando si parla di Francesco Totti, circondato da chi non ha mai esitato ad approfittare della sua ala protettrice per colpire in quel buio tipico di chi sta sempre alle spalle e non mostra mai il proprio vero volto.
Una giornata intera, quella di ieri, passata ad osservare una città impazzita guardare con occhi fissi e rintontiti quel dito, dimenticandosi che lassù, nel cielo blu lontano, c’è sempre la Luna che sola può mostrare la verità.
Totti non può dividere, perché è riuscito ad unire anche binari paralleli.
Totti non deve dividere ulteriormente ciò che è stato diviso con la forza della legge e della penna.
Totti non può dividere la Roma, poiché non è che un semplice figlio di essa. Magari quello più brillante, quello che i genitori sponsorizzano fieri davanti agli amici. Ma pur sempre un figlio, come me e te amico lettore che forse mi stai leggendo.
E la Roma, Lei, il nostro Bene Supremo, continua ad essere vittima di questo ambiente, poiché il tifoso è un prodotto di esso e non il contrario.
Perché dovrebbe essere lui, il sostenitore, a determinare ciò che ha intorno; e invece si lascia fagocitare da un giornalismo sportivo ormai ridottosi a titoli forzati, articoli sul nulla cosmico vestito da lavoro ben fatto, da mezze parole sospirate e veicolate per la città attraverso un megafono distorto, linee editoriali profondamente avverse, ma che han l’abilità di mostrare un faccino pulito da riuscire a farla sempre franca con un sorrisino e l’arte di aggirare una polemica con supercazzole degne del miglior Tognazzi.
La mattina la signora Blasi attacca pubblicamente il tecnico giallorosso, alla sera si parla di gelo, in prima serata anche Alfonso Signorini (sic) si schiera dalla parte del Capitano – come se ci fosse una parte della ragione e una del torto in quella che dovrebbe essere una grande famiglia. Ma come si sguazza bene in questa fanghiglia…
E intanto l’audience aumenta, le persone incollate ad un programma defunto da tempo in attesa di una sola parola: “Totti”; ci si fa pubblicità costringendo un marito a far uscire un comunicato che però non può andar contro la moglie ma non può neanche pestare i sentimenti dei tifosi, si attendono dichiarazioni e posizioni da parte di chi ha le mani legate (allenatore, società), si cammina sulle uova aspettandone la rottura.
Questo non è calcio. Questo non è giornalismo sportivo.
Non perché, come molte donne piccate hanno incredibilmente gridato a gran voce, una donna non possa esprimere la sua opinione, o fare un’intervista (consiglio di aprire Google e scrivere Sora Angelica o Donna Flora; poi di dar fiato alle idee); ma perché esistono delle regole non scritte in una coppia, per cui l’uno non dovrebbe creare problemi lavorativi all’altro. Mi sembra cosa di buon senso.
Avrei voluto scrivere qualcosa di verace, istintivo, passionale per omaggiare il giocatore capace di farmi innamorare del giuoco del calcio, colui che alla mia prima apparizione all’Olimpico – lontano ottobre 1998, quando il pallone era ancora spettacolo da vedere, non televisivo – indossò quella fascia, croce e delizia al cor, per la prima volta. Colui che quel giorno mi riempì così tanto di meraviglia gli occhi, da provocare in me un qualcosa di inspiegabile
Lo stesso giorno in cui mi innamorai di un’entità più grande di tutto: la Roma.
Quella Roma che resisterà anche senza Totti e Spalletti, Pallotta e Ilary, me e te.
Ti sei seduto dalla parte della Roma, allora nonostante gli sforzi di molti, non cambiare mai posto. Quello sì, non un seggiolino, merita di esser rispettato.
Gianvittorio De Gennaro.