Quando mancano pochi minuti al fischio d’inizio, nel settore ospiti ancora non si vedono gli striscioni dei gruppi. La cosa mi insospettisce e un po’ mi fa “preoccupare”. Gli ultimi anni sono stati una fucina di repressione e abusi nei confronti degli ultras bianconeri, anche all’Olimpico, dove qualche tempo fa, contro la Roma, gli fu vietato l’ingresso a diverso materiale tanto da indurli a non entrare e lasciare il loro spazio vuoto.
È sempre difficile parlare degli juventini, innanzitutto perché – inutile nascondersi dietro a un dito – in Italia in molti (anche all’interno del movimento) non riescono a scindere l’antipatia sportiva per la Vecchia Signora, alcune storie “torbide” che hanno visto coinvolte società e tifoseria organizzata e la mera e gratuita repressione adoperata nei loro confronti da parte di Questura e club. Non sta a me entrare in questioni complicate e che esulano dalla militanza ultras, ma sicuramente posso dire che in pochi nel nostro Paese hanno dovuto fare i conti con una simile portata repressiva. Fortunatamente, almeno finora, a nessuno è stato vietato l’ingresso sulla gradinate da parte dei propri dirigenti, e questo ci deve far riflettere su quanto un certo modello di gestione vada combattuto a prescindere, anche se foriero di risultati sul campo.
Per tutte queste ragioni, quando a pochi minuti dal fischio d’inizio vedo far capolino tutti i gruppi della Sud – che lentamente montano i loro bandieroni, appendono i loro drappi e cominciano a dar ritmo ai cori con il tamburo – mi sento sollevato e contento dal fatto che lo spettacolo possa essere completo. Io non riesco ad avere piacere quando una tifoseria – anche quella che mi sta meno simpatica – viene perseguitata o annientata. E in questi anni ho provato sempre grande tristezza nel non vedere i bianconeri al loro posto, soppiantati dal pubblico normale che poco può capire certe dinamiche e che, soprattutto nel loro caso, non si sogna neanche lontanamente di dimostrare solidarietà o sottolineare come uno stadio senza il tifo sia una vera e propria cattedrale nel deserto (sebbene qualche giocatore, in questi anni, lo abbia palesato).
All’Olimpico va in scena una semifinale che rischia di essere l’ultima spiaggia per le ambizioni sportive di ambo i club e che, dopo il 2-0 dell’andata, chiama la Lazio a compiere l’impresa. Cosa non impossibile considerato l’andamento ondivago degli uomini di Allegri, ma sicuramente complicato per una squadra che solo da qualche settimana ha cambiato guida, scegliendo l’ex difensore bianconero Tudor al posto di Sarri e avendo, dunque, bisogno di un minimo tempo prima di assimilarne i dettami tattici e caratteriali.
Sono cinquantacinquemila gli spettatori, con una rappresentanza ospite che oltre al classico Distinto lato Montemario, si avvale anche di un discreto numero di presenti stipati in una parte della Sud e in Montemario. La Nord – e il resto dei settori – si presenta spoglia dei propri striscioni per protesta contro la società. Contestazione che viene evidenziata da diversi cori contro il presidente Lotito scanditi sia prima che durante la partita. Le uniche pezze a essere appese in vetrata sono quelle per i diffidati e, ovviamente, per Gabriele Sandri, il cui volto si staglia proprio al centro del settore.
Prima che le squadre scendano sul manto verde, la Nord si esibisce nella classica sciarpata sulle note di “So’ già du’ ore”, per poi iniziare a sostenere a gran voce i biancocelesti. La spinta degli ultras sembra funzionare e al 12′ Castellanos, sugli sviluppi di un corner, porta la Lazio in avanti, dimezzando lo svantaggio. Se prima crederci era doveroso, ora è d’obbligo, anche perché la difesa juventina traballa in diverse occasioni. Il pubblico capisce la difficoltà degli avversari e spinge sull’acceleratore, con la Nord che realizza una gran bella performance fatta di manate, cori a rispondere che si rimpallano con la Tevere e bandieroni tenuti sempre al vento.
Quando gli juventini iniziano a tifare la sfida si infiamma, con invettive e offese che ovviamente non si fanno attendere da nessuna delle due parti. Per gli ultras bianconeri non è mai facile gestire e organizzare il tifo in trasferta, eppure gli va dato atto di riuscirci egregiamente, non mollando mai e spronando la squadra anche nel momento più difficile, vale a dire in avvio di secondo tempo, quando ancora Castellanos porta i suoi sul 2-0, facendo esplodere lo stadio. I laziali ci credono e sentono che ora la finale può essere cosa fattibile, sognando di portare a otto le coccarde tricolore in bacheca. Un numero che sino a una ventina di anni fa sembrava quasi impossibile, se si pensa che la Coppa Italia del 1958 ha campeggiato solitaria per decenni sulle bandiere della Lazio assieme allo scudetto del 1974. Prima che l’era Cragnotti portasse il club capitolino tra le big del calcio italiano e aprisse le danze in questa competizione con il memorabile successo sul Milan nella stagione 1997/1998. Di contro la Juve è la vera e propria regina della kermesse, con ben quattordici affermazioni.
Gli uomini di Tudor avrebbero la seria opportunità di chiudere i conti, ma sul più bello si inceppano, fallendo un paio di nitide occasioni e favorendo il ritorno dei dirimpettai, che si gettano a capofitto oltre la metà campo e alla fine trovano il gol qualificazione con Milik, che su assist di Weah non può far altro che segnare in tap-in e correre ad esultare sotto il settore ospiti. La rete premia lo zoccolo duro degli ultras, che come detto non ha mai smesso di cantare e sventolare. È evidente come il periodo sportivo tutt’altro che florido e gli anni di repressione, abbiano in un certo senso fatto “bene” ai gruppi juventini, che mostrano fame e voglia di far capire che non sono morti. Credo che, seppur in un contesto epocale differente, si possa quasi azzardare un paragone con l’anno in cui la Juve tornò dalla Serie B, accompagnata da una tifoseria che dopo l’onta della retrocessione d’ufficio e l’anno di cadetteria, era risalita in A con la bava alla bocca, riuscendo a trasmettere cattiveria e voglia di tifo anche agli “occasionali”. Fanno la loro apparizione anche un paio di torce e qualche fumogeno, cosa che non guasta mai. Ripeto: giudicare onestamente i bianconeri non è facile e soprattutto non per tutti, ma negarne il miglioramento o, peggio ancora, storcere il naso per il loro ritorno sugli spalti con tutti gli strumenti del tifo penso sia un qualcosa di aberrante.
Al triplice fischio, quindi, festa per la Juventus e grande delusione per i biancocelesti, che senza dubbio non hanno nulla da rimproverarsi oggi, dovendo invece cercare colpe e responsabilità nella partita di Torino. A proposito di quella gara, eloquente lo striscione della Nord quest’oggi, a rimarcare i soliti comportamenti dispotici allo Stadium. Ai laziali, infatti, non era stato permesso l’ingresso di parte del materiale, registrando problemi anche con persone che avevano fatto il cambio nominativo per il biglietto. Avvenimenti che, purtroppo, sono più che consuetudine nell’impianto torinese e che sempre più stanno spingendo le tifoserie organizzate a disertare la trasferta. Chissà quando e se qualcuno si deciderà a mettere mano alla questione, ma visto il trattamento che soprattutto i supporter di casa hanno dovuto impunemente subire per anni, è più facile vedere questo stadio come un exclave dove i padroni di casa possono fare ciò che vogliono senza dar conto a nessuno. Questo ricordiamocelo sempre quando vogliamo stadi nuovi e di proprietà!
L’ultima istantanea è per la Lazio che riceve i fischi sotto la propria curva. La sera dell’Olimpico è finita e le luci sulla Coppa Italia si riaccenderanno il 15 maggio, quando a la Juventus se la dovrà vedere con l’Atalanta, nel remake (stavolta col pubblico) della sfida vinta dai bianconeri nel 2021, in pieno Covid.
Testo Simone Meloni
Foto Agenzia