Il Bologna ad Anfield. Se me lo avessero detto qualche anno fa, avrei fatto una sonora risata. Circa ai tempi di Chiavari (con tutto il rispetto). Eppure è successo: i primi di ottobre, quest’anno, coincidevano non solo con la festa di San Petronio, ma con un lungo ponte d’autunno partito il primo di ottobre, con le prime partenze dall’Aeroporto Marconi, e proseguito poi nel giorno della partita, col grosso del tifo pronto a muoversi alla volta della Terra Promessa. Liverpool.

La truppa bolognese si muove in tutti i modi: non c’è il diretto per Beatles Town, e quindi tocca scendere a Londra, Birmingham, Manchester, addirittura Dublino, con traghetto annesso. Il sottoscritto sceglie la città degli Oasis come attracco: due ore e mezza di volo, poi trenino verso la rivalissima Liverpool. Sul mezzo è già pieno di tifosi rossi: tutti irlandesi, tutti amanti degli Scousers. “In Irlanda tifiamo due squadre – mi dicono stappando la ventesima birra poco dopo l’ora di pranzo – Celtic e Liverpool, sono le squadre degli immigrati irlandesi in Uk”. E ovviamente Irlanda, che seguono un po’ ovunque, dimostrandolo con le foto in camper in giro per mezza Europa (e sempre una birra appresso).

L’arrivo a Liverpool è per le 16, quello allo stadio, dopo rapido giro dei posti più iconici (Albert Dock su tutti) ad un’ora dalla partita: prendo un bus coi compari, restiamo imbottigliati nel traffico. Panico. “Non vi preoccupate – dice una vecchia signora con sciarpa scouser – venite con me, vi ci porto io ad Anfield”. È talmente fedele dei Reds, che ha il posto gratuito vicino alla Kop. Da lacrime. La zona intorno allo stadio è davvero speciale, antica e al contempo moderna, con posti per mangiare un po’ dappertutto (opto per il tradizionale stufato scouse, per i fish and chips ci sarà tempo).

L’esterno di Anfield è spettacolare: statue degli idoli immortali, da Ian Rush a Bill Shankly, con la sua definizione di socialismo applicato al calcio; poi sacrari per le vittime delle note tragedie, rosso ovunque. E la fan zone, con la gente che canta e beve, reinventandosi John Lennon. È un tempio laico che tutto sommato ci sta, dove i mercanti sono entrati, sì, ma lavorando bene. Il problema del resto non è il marketing, ma quello fatto di merda. Viva il commercio bello allora. Tipo questo.

L’ingresso è maestoso: ho sempre sognato questo momento, di vedere i famosi stadi inglesi dal vivo. Il mio tour comincia da uno dei più famosi. La struttura ti lascia mozzafiato, con i suoi 61mila posti letteralmente sul campo, con copertura annessa, roba che ti fa vergognare (sottolineo: vergognare) dei nostri impianti da Terzo Mondo, uno scandalo che non mi stancherò mai di denunciare. E poi arriva il momento più atteso: quello di You’ll Never Walk Alone, che ascoltiamo in religioso silenzio, versando di nascosto anche una lacrimuccia. Il problema è che lo spettacolo canoro nei fatti si ferma lì: la Premier non è l’NBA, grazie a Iddio. Ma di questo passo il cammino è tracciato.

Specifico: io capisco che da quelle parti una volta la situazione era totalmente fuori controllo, e che quando cominciano a morire le persone, serve per forza una stretta autoritaria. Ma non poter portare in curva nulla, i controlli al limite della paranoia, e i tanti (troppi) turisti, sono l’altra faccia della medaglia di un modello che apprezzo, ma solo in parte. Insomma: la Kop non me l’ero immaginata così. È bello lo spontaneismo nei cori, che partono senza leader a dettarli (e quando vogliono, si alzano in maniera davvero potente). Ma dentro di me, so che ci siamo persi il meglio: il calcio inglese quando era davvero inglese. Coi suoi pregi e i suoi difetti. Con i primi che comunque superano i secondi anche adesso, specie quando l’inno della Champions viene subissato di fischi, e coperto da un incredibile “Liiiiiverpoooool” (nella patria del punk, non poteva essere altrimenti).

Comunque tornando a noi: lasciamo stare i padroni di casa, ed arriviamo agli ospiti. Sono tremila, ufficialmente, ma nei fatti di più. Il settore straborda, c’è chi denuncia l’overbooking. I bolognesi si sono ritrovati nei pub del centro, salvo poi fare un bel corteo alla volta di Anfield, molto partecipato. Sugli spalti, c’erano anche gli avellinesi (coi Mai Domi) e i tedeschi del Bochum (con i Forever Ultras). C’è un solo grande striscione, come annunciato, che copre tutto il settore. Il nome è fin troppo facile: Bologna.

E che l’invasione sia davvero di popolo, di una città in movimento, lo dimostrano anche le presenze dei tifosi illustri: dietro di me c’è Cesare Cremonini, poco più in su Gianni Morandi. Mancava solo Luca Carboni (in un momento no: forza!) e Lucio Dalla, che guardava da lassù. Per il resto, l’esercito di musicanti era al completo. E nella città dei Beatles (che dicono tifassero Everton) non poteva essere altrimenti.

Sul campo il Liverpool si dimostra ovviamente superiore, il classico “yeeee” alla rete è impressionante; ma il Bologna comunque non sfigura, e alla fine pur perdendo si guadagna gli applausi dei tremila, che miglior posto per tornare in giro per l’Europa non potevano davvero scegliere. Dopo la partita poi, arriva un curioso terzo tempo: nei pub del centro ci sono tifosi rossi e rossoblù, l’alcool la fa da padrone. C’è una giovane star locale, sul genere country, che intona i cori della Kop, seguito a ruota dai presenti: si loda Salah, Alisson, e si insulta ovviamente Manchester (c’è un coro davvero ipnotico, che sulle note di “Oh when the Saints”, conclude con “Man is full of…”. Avete capito cosa).

Poi, ecco l’omaggio a Bologna: dalle casse risuona 50 Special, L’Anno che Verrà, C’era un ragazzo che come me. Si beve e si canta fino a notte inoltrata, quando ad un certo punto i titolari decidono di chiudere, perché nel frattempo si sono fatte le quattro, e in fin dei conti è solo un giovedì mattina qualsiasi (ma tra i local, sinceramente, la cosa non sembra preoccupare: qualche ora dopo, sono di nuovo al pub per la classica english breakfast. E birra annessa).

E insomma, i bolognesi tornano a casa sconfitti ma felici, perché se Davide non ha battuto Golia gli ha comunque tenuto testa, e sugli spalti è stato spettacolo dall’inizio alla fine: inutile aggiungere che tutti, sotto le Due Torri, dovrebbero capire che siamo di fronte all’alba di una nuova era, dove tutto d’ora in poi sarà diverso. Il nome di Bologna, è finalmente sulla bocca di tutti. E la sensazione, è che il bello debba ancora venire.

Testo e foto di Stefano Brunetti