Per fare il mio esordio allo stadio Danilo Martelli non scelgo una partita a caso, ma una delle sfide più sentite del girone, in seno a una stagione che sinora vede la squadra virgiliana netta mattatrice e, dopo questa sera, forse candidata a una promozione che solo un suicidio sportivo può toglierle. Inoltre arrivo a Mantova reduce dalla giornata organizzata dagli ultras alabardati per celebrare i quarant’anni dalla scomparsa di Stefano Furlan. Pertanto questa serata si carica anche di ulteriori significati e la presenza dei supporter giuliani sarà innanzitutto in nome di quel ragazzo strappato alla vita troppo presto dalla cieca e gratuita violenza delle forze dell’ordine. Ma andiamo per gradi.

Per farvi intendere quanto sia complicata la vita dei triestini in fatto di spostamenti, mi è sufficiente pensare che quella che per loro si configura come una delle trasferte più “vicine” dell’anno, dista ben 303 chilometri. Che nel mio caso equivalgono a circa quattro ore di treno. Non una passeggiata, neanche per chi vuol sostenere a tutti i costi i propri colori. Discorso differente per me, che da appassionato viaggiatore provo ovviamente piacere nell’attraversare questo quadrante di Nord Est su strada ferrata, malgrado il maltempo che imperversa e che non sembra avere nessuna intenzione di arrestarsi. Quando col buon Amedeo raggiungiamo Mantova sono le 14:30. Ho ricordi davvero sfocati e troppo lontani della mia unica, quanto breve, presenza in città. Perciò voglio sfruttare il pomeriggio per esplorarne almeno il centro storico e visitarne le bellezze. Il cielo livido e le gocce che scendono lente e fitte non rendono forse completamente giustizia a quello che per secoli è stato il cuore pulsante dei Gonzaga, una delle più celebri e potenti famiglie principesche d’Europa, che ha amministrato la città per ben quattrocento anni. Lasciando in lei segni tangibili e maestosi, i quali probabilmente hanno suggellato lo splendore di un posto che già di suo risulta affascinante e particolare.

Basti pensare che Mantova, grazie a un certosino lavoro di deviazione e riassestamento del fiume Mincio volto a difenderne i confini comunali, nel XII secolo divenne una vera e propria isola circondata da quattro laghi: Superiore, Mezzo, Inferiore e Paiolo. Soltanto due secoli dopo, a causa di una forte inondazione, si decise di prosciugare il Paiolo, rendendo la città una penisola. Forma che mantiene tutt’oggi e che la rende a dir poco particolare. Non è un caso che tra le foto più celebri ci siano sempre quelle dove lo skyline della città e quasi immerso nell’acqua, elemento a dir poco rappresentativo a queste latitudini. Ma rappresentativi sono anche gli edifici imponenti come il Palazzo Ducale e il Palazzo Te, oltre a un centro storico che forse – fortunatamente – “subisce” un turismo ancora “sostenibile” rispetto alla sua bellezza e al suo interesse. Sta di fatto che, come spesso mi capita, la bellezza artistica e i legami storici di una terra o di una città riescono completamente ad assorbire la stanchezza che ancora sento per gli spostamenti, il poco sonno e la giornata precedente. Sono un toccasana per gli occhi e per la salute.

Molto curioso e bello il mito che spiega la fondazione e il nome di questo capoluogo di provincia incastonato tra Lombardia, Veneto ed Emilia: la profetessa greca Manto nel suo errare si sarebbe fermata in quest’area allora palustre, formando un lago con le sue lacrime e sposando la divinità fluviale Tyberis, Re dei Toscani. Da loro sarebbe nato Ocne, il quale in onore di sua madre avrebbe fondato una città sulle sponde del Mincio, dandole il nome di Mantua. Questa versione è forse quella più celebre perché riportata nell’Eneide del mantovano Virgilio, nonché nella Divina Commedia, dove Dante dedica grande spazio al poeta, il quale lo accompagna dal Purgatorio all’Inferno. Ovviamente il mito è spesso utilizzato per esaltare l’araldica e l’identità di un luogo, ma trova poi nella narrazione storica alcune discrepanze. Mantova nelle sue origini ha sicuramente l’importante impronta degli etruschi, che qui si stabilirono fino a che non vennero scacciati dai romani. Successivamente, alla caduta dell’Impero d’Occidente, la città fu teatro di governi goti, bizantini e longobardi, solo per citarne alcuni ed evidenziare come il patrimonio culturale che questa città oggi si ritrova sia il frutto di una stratificazione cronologica della storia davvero importante. Un aspetto che, non a caso, riguarda anche le vicine Brescia e Verona, con cui Mantova divide alcune importanti sfumature. Camminando per la Piazza delle Erbe ed arrivando a Piazza del Sordello non si può che rimanere ammirati, quasi certi di esser tornati indietro di diversi secoli e delusi dal dover abbandonare questa cornice per svolgere le altre mansioni giornaliere.

La pioggia continua imperterrita e la cosa un po’ mi preoccupa, pensando allo stadio e a come i tifosi potranno assistere alla partita. Lo so, ho le mie fisse, ma davvero non sopporto le “ombrellate” e considerato il meteo ho paura che questa rischi di essere la serata giusta per questo “spettacolo”. Fortunatamente verrò smentito. Quando ci fermiamo in un bar per un veloce aperitivo, cominciamo a scambiare qualche chiacchiera con il proprietario, dopo aver carpito il suo interesse per il calcio. Ci dice che al Martelli ci sarà una bella cornice di pubblico e che un po’ tutta la città è sorpresa dall’exploit della sua squadra. Del resto parliamo di un club che lo scorso anno era retrocesso con tutte le scarpe nei dilettanti, ma che grazie al fallimento del Pordenone ha potuto usufruire del ripescaggio. In pochi, quasi nessuno, avrebbero puntato un solo copeco su un cammino quasi inarrestabile. Eppure parliamo di una società storica, che nel suo piccolo è riuscita a scrivere importanti pagine del nostro football con sette partecipazioni alla massima serie e quattordici in cadetteria (i biancorossi saranno, peraltro, i primi a battere la Juventus nel 2006/2007, unico anno di B dei bianconeri) e che malgrado una città con meno di cinquantamila abitanti e una provincia non certo grande, può vantare da sempre un buon seguito.

Quando mi avvicino allo stadio manca un’oretta al fischio d’inizio. La zona dove è edificato il Martelli è un qualcosa di veramente particolare: sullo sfondo il sontuoso Palazzo Te domina una piana dove, sin da inizio novecento, si è praticato sport. Basti pensare che qui venne eretto dapprima un ippodromo (utilizzato anche come campo di football dalla prima società locale, la Mantovana, nata per l’appunto nel 1911) e una sorta di velodromo, prima che ovviamente questo venisse rimodellato all’interno dello stadio stesso (qui nel 1930, durante il Giro d’Italia, transitò il mantovano Learco Guerra, prima maglia rosa della storia) quando in città si sentì l’esigenza di un impianto polifunzionale, in grado di ospitare calcio, atletica e ciclismo. Lo stadio, così detto, venne inaugurato nel 1937 e inizialmente intitolato a Benito Mussolini, sostituito dal soldato americano J.R. Nation, caduto in una battaglia nei pressi della città, e infine a Danilo Martelli, giocatore perito col Grande Torino nel Disastro di Superga.

Risulta quasi difficile descrivere in parole povere questo impianto: è sicuramente la dimostrazione di come un tempo nel nostro Paese venissero progettati stadi a prova di popolo: a due passi dal centro, a pochi metri da palazzi storici e in grado di ospitare tutti gli sport principali (anche se questo, va detto, oggi è davvero desueto). Dirò una cosa impopolare per gli amanti della modernità, ma su di me gli stadi con pista d’atletica e velodromo hanno sempre esercitato un grande fascino. Sembra di tornare indietro di decenni e, per quanto non siano comodi neanche per gli ultras, vedere striscioni e tifo organizzato in quelle curve sopraelevate è davvero suggestivo. Certo, mi viene da fare una considerazione per gli amici europei che oggi ci mostrano grandi spettacoli di tifo in stadi coperti, comodi e funzionali: imparate a tifare in queste “cattedrali” e poi vi spiegherete perché oggi, dopo decenni di repressione e privazione degli strumenti basilari per coordinare una curva, spesso in Italia si faccia davvero fatica a essere compatti e incisivi.

Una piccola curiosità: la casacca originaria della Mantovana e, successivamente, del Mantova, era composta da colori biancoazzurri. Nel 1956 la raffineria petrolifera OZO divenne sponsor del club, costringendolo a cambiare l’ordine cromatico in biancorosso e apponendo per la prima volta sulla maglia di un club italiano una barra verticale. Stravolgimento che negli anni è stato accettato e poi rivendicato dalla tifoseria lombarda. Molto interessante l’esperimento approntato dalla società nel 2005, quando realizzò la terza maglia di colore gialloverde. Questo per onorare il soprannome di Piccolo Brasile, di cui i virgiliani si sono fregiati nei loro anni migliori.

Attorno allo stadio è un gran brulicare di tifosi con sciarpe e maglie del Mantova. Il colore è sempre stato un tratto distintivo della tifoseria virgiliana, non a caso uno dei ricordi che ho di essa è una bellissima sciarpata effettuata nel settore ospiti del vecchio stadio Matusa di Frosinone, in occasione dei playoff di C1, nel 2004/2005. Sono passati ben ventuno anni, eppure come sempre il radicamento del tifo dimostra di essere continuativo e di tramandarsi. Certo, è ovvio che la stagione di vertice e i prezzi popolari per la curva, abbiano richiamato tanta gente sulle gradinate (il dato ufficiale parla di 3.928 abbonamenti staccati), ma è altrettanto vero che i numeri si fanno quando c’è appartenenza e quando la città riconosce e ama il proprio sodalizio sportivo. Ci sono casi in cui anche sorprendenti scalate in Serie A e buoni campionati professionistici non hanno aiutato né ad aumentare i numeri, né a rinsaldare il rapporto tra tifoseria e città. E infine: quando si propongono prezzi “umani” la gente allo stadio ci va eccome. In questo stadio, che da dentro appare ancora più bello, si capisce che è passata anche buona parte della storia novecentesca di Mantova e solo la “nuova” Curva Te, eretta nel 2005 – in occasione del ritorno dei biancorossi in B – spezza l’antica conformazione del Martelli. Dal 2016, invece, il Distinto è chiuso perché inagibile, costringendo il club a diminuire la capienza a 7.367 posti (e pensare che negli anni settanta, con il club in A, lo stadio poteva contenere fino a 21.000 spettatori!). Per la cronaca: oggi saranno circa seimila i presenti, di cui quasi duecento provenienti da Trieste.

Faccio un paio di giri sulla pista d’atletica – ormai inutilizzata e per questo piena zeppa di erbacce – per respirare il clima pre partita e vedere da vicino ogni piccolo lembo dello stadio. Nel frattempo i mantovani stanno preparando una coreografia che vedrà protagoniste bandierine biancorosse. Sia in curva che in tribuna. Da lontano vedo un po’ di movimento nei pressi degli ingressi del settore ospiti, per cui capisco che gli ultras giuliani stanno per fare il loro ingresso. La sfida sta quasi per avere inizio e i primi insulti tra le due fazioni volano senza troppe remore. In un girone che offre davvero poche sfide meritevoli di attenzione da un punto di vista ultras, potersi confrontare è quasi un miraggio. Non è un caso che le partite tra Triestina, Mantova, Padova e Vicenza siano praticamente di un altro pianeta rispetto ad altre che vedono protagoniste compagini dello stesso raggruppamento (con il dovuto rispetto, ovviamente, per quelle piazze che vantano un seguito e i cui gruppi si fanno in quattro per sottostare ai giorni e agli orari improbabili di questa categoria).

Gli ultras di casa accolgono le squadre con un bell’effetto cromatico. Semplice e ben riuscito, oltre a esser “condito” da qualche torcia che non guasta mai. Tornare a riempire la propria curva significa anche dover “rieducare” la gente a fare il tifo e a seguire i lanciacori, cosa che tutto sommato i mantovani sembra stiano facendo bene, anche sospinti dall’entusiasmo generale. La squadra va quasi subito sul 2-0 e la Curva Te offre una bella performance, con bandieroni sempre al vento, belle manate e cori tenuti abbastanza a lungo. Certo, i tempi di quel bellissimo e identitario striscione dei Virgilian Kaos sono lontani, almeno da punto di vista di ciò che si espone in vetrata, ma è totalmente comprensibile dopo anni di divieti e oppressione da parte di Osservatori e Questure sul materiale. Faccio questo inciso più che altro per sottolineare quanto i gruppi, i nomi e il portamento degli anni novanta fossero davvero un qualcosa di unico e grandioso, soprattutto se confrontato alla penuria di fantasia che spesso oggi pervade le nostre curve. Sta di fatto che, a parte le mie considerazioni generiche, il pubblico di casa si fa sentire e sicuramente ben figura in una serata dove Giove Pluvio vuol ricordare a tutti i costi la sua predominanza. A tal proposito, come dicevo, pochissimi ombrelli sia nella curva di casa che nel settore ospiti, cosa che mi rinfranca: c’è ancora speranza!

Su fronte triestino, gli ultras alabardati – dopo l’ingresso pirotecnico – aprono le danze con diversi cori e uno striscione per Stefano Furlan, applauditi peraltro anche dai rivali (che a loro volta, a inizio secondo tempo, esporranno uno striscione sulla vicenda), iniziando poi a tifare per la propria squadra. Curva Furlan e Nucleo San Giacomo coordinano i presenti e, devo dire, rispetto ad altre volte che mi è capitato di vederli in trasferta, oggi i giuliani sono sicuramente molto colorati (tra bandieroni, bandierine e una bella sciarpata nel finale). Oltretutto voglio fare una considerazione, premettendo che sono un amante del tifo col tamburo: per una volta ho apprezzato davvero molto una tifoseria che ne ha evitato l’uso (che ormai, peraltro, viene fatto spesso in modalità bongo più che per dare ritmo: maledetti polacchi e maledetti social!) non avendo numeri da esodo di massa, riportando le lancette del tempo indietro di qualche anno, quando anche l’utilizzo di questo strumento era pensato e ponderato in base alle occasioni e soprattutto ai numeri. Insomma: complessivamente una buona prova, nonostante una sconfitta maturata praticamente in avvio (inutile sarà il gol del 2-1 siglato a metà secondo tempo) e la testa della classifica definitivamente scivolata via.

Il post partita è, ovviamente, tutto dei mantovani, che – anche in virtù del pareggio del Padova – non solo scacciano la sconfitta subita nella giornata precedente dall’Albinoleffe, ma guadagnano fondamentali punti sulle inseguitrici. I giocatori cantano e saltano insieme alla Te, mentre anche il pubblico “normale” resta sulle gradinate per ringraziare la squadra. Il clima, in generale, devo dire che è molto genuino. Si intuisce che il pubblico autoctono preserva quel giusto mix tra sano e bel provincialismo e voglia di mostrare a tutti la regalità di una città che può vantare secoli di indiscussa storia. Inoltre il sapore della cadetteria richiama a derby davvero storici, basti pensare a quello col Modena, e al ritorno in casa di gemellati di vecchia data come i bresciani. I ragazzi della curva avranno certamente da lavorare per cementare l’ambiente e far sì che questo periodo restituisca al loro settore un significativo impatto numerico e partecipativo. Di certo il terreno è fertile e la strada sembra tracciata.

Strada che è tracciata anche per il sottoscritto, in odore di rientro a Roma, che avverrà “ovviamente” con il Flixbus. Dopo qualche minuto perso ancora all’esterno del Martelli, mi dirigo verso la fermata, posta praticamente nei pressi del casello autostradale. Gli ultimi attimi della mia sortita mantovana sono sotto alla tutt’altro che affascinante pensilina di un distributore, per evitare pioggia e freddo. La giornata è finita e quando salgo sul torpedone mi addormento davvero in men che non si dica, esausto ma soddisfatto per tutto. Non mi sarebbe bastato mettere la “X” sullo stadio per dire di esserci stato. Non sarebbe stato soddisfacente. Avevo bisogno di sentire l’odore di Mantova, di vederne almeno un po’ di vita e di anima. E di camminare all’esterno del suo tempio calciofilo. Ecco perché mi arrabbio se qualcuno mi definisce “groundhopper”. Prima che qualcuno coniasse questo sgradevole termine già esistevano malati di mente intenti a girare stadi e curve, ma non per la voglia di apparire. Bensì con l’intento di conoscere, di aggiungere un tassello in più alla propria persona e alla propria cultura ultras. Aspetti che vengono ben prima di ogni numero e di ogni statistica su quanti stadi si siano visitati o su quante partite si siano viste. Non a caso io non le ricordo tutte, ma ricordo tutto quello (bello o brutto che sia) che mi è rimasto nel cuore. E questa sarà una di quelle occasioni!

Simone Meloni