“Sembra quasi di andare in trasferta”, mi dice il buon Matteo quando arriviamo nei pressi dello stadio Baracca, dopo il nostro viaggio in Flixbus. E in effetti come dargli torto? Salire su un torpedone assieme a un altro malato di tifo e calcio “non convenzionale”, tagliare in due la Pianura Padana e arrivare quasi in riva all’Adriatico chiacchierando e curiosando tra il modo di vivere la partita degli autoctoni, ci fa sentire sicuramente con qualche anno in meno, dandoci la gioia di ripercorrere i primi passi e quei giorni lontani in cui anziché fotografi, cronisti e osservatori eravamo semplicemente tifosi, ultras, seguaci delle nostre fedi. Un fil rouge che collega tutte le nostre domeniche e che non ci fa sentire soli da un capo all’altro dell’Italia. Perché sappiamo che malgrado differenze, tradizioni e modi di intendere stadio e calcio, la lingua con cui comunichiamo è quella. E troveremo sempre qualcuno in grado di connettersi a noi.
Il Baracca è uno di quegli impianti a cui anelo da diversi anni: vecchio, storico, a perenne rischio chiusura e spesso non disponibile, anche a causa dell’ipocondria delle autorità e delle cervellotiche normative per utilizzare gli stadi nel 2024. Quando, qualche settimana fa, ho dovuto rinunciare anche al derbissimo col Treviso – successivamente al boicottaggio dei supporter ospiti per i pochi biglietti a disposizione – ho cominciato a pensare che davvero avrei avuto difficoltà a visitare, almeno una volta, una delle più vecchie “arene” d’Italia, inaugurata nel 1896 come ippodromo e utilizzata per il calcio dal 1919. Oltre un secolo di football, una storia simile al vicino Penzo (inaugurato invece nel 1913). Una storia che lascia intendere quanto questo lembo di terra sia stato e sia tutt’oggi crocevia per popoli, mercanti, turisti e marinai, che qua hanno ovviamente portato il gioco del pallone in anticipo rispetto ad altre zone del Belpaese.
Approfittiamo anche della giornata dalla temperatura dolce e del cielo che, seppur non proprio sgombero dalle nuvole, ha finalmente chiuso i rubinetti, lasciandosi dietro una buona dose di danni in molte città lombarde e venete. La mia scelta è quasi “obbligata” e ricade su una delle ultime partite con una tifoseria ospite, quella contro il Chioggia primo in classifica. Prima osservazione che fa gioire gli occhi: l’arrivo di qualche raggio di sole e del clima mite fa ovviamente “esplodere” tutta la natura godereccia dei locali. Diversi bar sono presi d’assalto, nel più tipico degli apertivi mattutini veneti. Col tempo ho imparato sempre più ad apprezzare questa regione e la sua gente. E del resto come non si potrebbe provare simpatia per chi unisce una buona dose di becerume, amore per l’alcol, ironia “pesante” e senso di appartenenza? Ovviamente ho voluto semplificare il tutto in una sorta di stereotipo, tuttavia è un qualcosa che mi colpisce sempre e mi rincuora, soprattutto al cospetto di quella parte di Italia che “fieramente” lascia indietro le proprie peculiarità, con l’intento di omologarsi al piattume nord europeo.
Dobbiamo ringraziare la società del Mestre se un’ora prima del calcio d’inizio ci è permesso entrare nello stadio ancora vuoto e visitarlo nella sua natura più intima (indovinate chi saranno gli unici che, a un certo punto del nostro tour, avranno da ridire perché la curva dove stavamo camminando non era ancora stata “bonificata”? Poi veniteci ancora a dire che certe “categorie” non siano foriere di sventura e godano nel vedere infranti e calpestati sogni e passioni). Un privilegio che noi raccogliamo ben contenti, fotografando ogni centimetro quadrato e guardando con ammirazione curve e tribune di un impianto che, a tutti gli effetti, rimanda indietro di qualche decennio. Per tornare ai tempi di oggi e deprimersi, tuttavia, è sufficiente pensare ai soli 1.999 posti omologati (a fronte di una capienza ben più ampia), al Distinto Est chiuso e ai diversi anni in cui – a causa dei lavori necessari alla ristrutturazione e alla mala gestione della politica locale – gli arancioneri sono stati costretti a giocare le partite casalinghe lontane da Mestre. Eppure il Baracca è ancora qua, cosa incredibile se si pensa a quante giunte comunali, a quanti “palazzinari” e a quanti detrattori di storia e tradizioni sportive avrebbero voluto demolirlo negli ultimi trent’anni. Il mio volerlo vedere, il mio volerne sentire i suoni, gli odori e la sinergia con il territorio è principalmente legato proprio al suo status pericolante. Come quei vecchi che sembrano sempre lì lì per passare a miglior vita, ma che alla fine te li ritrovi seduti al bar sotto casa con un bicchiere di vino in una mano e le carte nell’altra. E magari un bel gesto dell’ombrello, a dirvi: “Visto, mi credevate morto? E invece sto ancora qua…!”.
E paragonare l’impianto mestrino a un anziano credo sia quanto di più calzante possibile. Te ne accorgi camminandoci attorno, con i suoi quattro lati cinti letteralmente da palazzi e abitazioni, tanto che la parte del Distinto quasi non si distingue (scusate il gioco di parole!) da quella urbanizzata. Te ne accorgi vedendo la sua conformazione interna, con gradinate basse e, malgrado i recenti lavori di manutenzione, per forza di cosa custodi del secolo scorso. Per ammirare questo spettacolo decidiamo di salire in cima alla Curva Oberdan – oggi dedicata agli ospiti ma dal 1982 al 2017 cuore pulsante del tifo di casa – immaginando come dovessero essere qua i derby col Venezia o le partite più sentite degli arancioneri nel catino che fu negli anni d’oro del calcio italiano. Le mura sono ricoperte di graffiti, molti dei quali lasciati dai gruppi che negli anni sono stati chiamati a tirare la carretta. Quelli degli Orange Insanity – ultimi a rivedere la Serie C a queste latitudini – sono i più “freschi”, ma molto belli restano anche i murales con lo stemma della Mestrina (una delle diverse società che dal post fusione Venezia/Mestre del 1987 hanno tentato di rinverdire i fasti del calcio locale), mentre il colpo di genio spetta di diritto al Bar-H, al cui interno troneggiano una sfilza di Borghetti e una masnada di adesivi ultras. Alcune indicazioni vecchie (Entrata, Uscita, Abbonamenti, Tessere, Ridotti etc etc) sono state sapientemente conservate nella parte interna del cancello della Curva Oberdan, forse a testimoniare quanto la comunità mestrina tenga al suo stadio. Dite che esagero? Chiedetelo al buon Massimo Cacciari che, nel 2008, di fronte alla sua proposta di tramutare lo spazio in unità abitative, si vide raccogliere, in poco tempo, 3.000 firme di dissenso. E malgrado provò lo stesso ad andare avanti, alla fine fu l’allora Edo Mestre a spuntarla, ottenendo una licenza temporanea. Un esempio su tanti. Come nel 1995, quando dopo diversi anni di abbandono (dal 1987 al 1991 la neonata Unione aveva utilizzato il Baracca in C, ma una volta salita in B i requisiti federali non ne permettevano lo sfruttamento, costringendo il club a traslocare al Penzo) il rinato Mestre cominciò a riutilizzarlo, trovando il veto di alcuni esponenti della giunta comunale che volevano demolirlo, sempre in favore di nuove case, dalle quali – dissero – si dovevano ricavare anche fondi per un nuovo impianto a Tessera (altro mantra del “vorrei ma non posso” istituzionale da queste parti). Cittadinanza e club si opposero strenuamente, inviando numerosi delegati a presenziare alla seduta del Consiglio comunale dedicato all’accoglimento della variante, riuscendo infine a ottenerne il respingimento e il mantenimento della destinazione urbanistica “a stadio” dell’area.
Questo “vecchio” è stato ovviamente bambino, neonato. E sin dai suoi primi vagiti si è trovato a doversi camuffare, a dover difendere la propria identità per poterne sfruttare la vera anima e la vera vocazione. Nel 1896, come detto, il terreno venne inaugurato come ippodromo, dopo che la Parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio concesse uno spazio a marinai e ufficiali inglesi per praticare sport. In realtà non vi fu disputata mai nessuna corsa equina e questo fu solo un espediente: le leggi del tempo permettevano, negli ippodromi, lo svolgimento di qualsiasi manifestazione sportiva o circense e ne consentivano l’accesso anche alle signore, stabilendo una tassazione fissa al 25% sul prezzo del biglietto d’ingresso. Sarà la Società Ginnastica Marziale – che prendeva il nome da quello che è ritenuto il più importante epigrammista in lingua latina – il primo club a farvi rotolare la sfera di cuoio (con la creazione, nel 1904, della sezione football), proprio grazie alla presenza degli inglesi che, non trovando luoghi dove stazionare a Venezia, erano di stanza in quel di Mestre. Si provò a organizzare la prima amichevole con la Reyer che, nata nel 1872, si proponeva come capofila regionale dello sport di squadra. Tuttavia, l’allora presidente Pietro Gallo, rinviò il tutto a quando questa disciplina fosse stata più conosciuta. Nota a margine: fonti controverse dicono che nel dicembre del 1907 la Marziale si fuse proprio con la Reyer, dando vita al Venezia Foot-Ball Club, mentre per altri si trattava di un’altra Marziale, con sede nel centro lagunare.
Tornando allo stadio, con l’incedere del tempo e l’affermarsi del calcio, diverrà sempre più teatro di questo sport, anche se la vera e propria consacrazione è datata 1919, con la partita inaugurale tra Mestre FC e Spes Mestre. Negli anni successivi la mai utilizzata funzione ippica venne man mano dismessa, facendo prevalere sempre più l’utilizzo polisportivo – e in particolar modo calcistico – dell’impianto. In data 13 ottobre 1923 la Società Anonima Pro Mestre presentò all’ufficio protocollo del Comune di Mestre un progetto per la costruzione di un “campo polisportivo in adiacenza del viale Garibaldi, ex ippodromo”, a firma dell’ingegnere Antonio Gardin. Nella stessa mattinata il progetto ricevette il nulla osta dagli uffici comunali dei lavori pubblici e d’igiene, per poi essere controfirmato dal sindaco il 17 ottobre successivo. L’opera venne realizzata in stile razionalista e si decise di porre l’ingresso principale nell’attuale Via Francesco Baracca, mentre sempre nell’ottica della natura polisportiva, lo spazio venne dotato anche di un campo da tennis e uno da pallavolo. Il 14 giugno 1925 avvenne la vera e propria inaugurazione, alla presenza di tutte le autorità cittadine, nonché a quella di molti dirigenti della fornace di Carpenedo (che in origine era un villaggio autonomo, divenuto poi sempre più parte integrante del comune di Mestre e oggi uno dei punti di ritrovo degli ultras), che aveva contribuito attivamente alla costruzione e alla fabbricazione dei materiali necessari. L’anno successivo il comune decretò una sessantina di nuove intitolazioni per altrettante vie e strade mestrine: tra di esse figuravano anche la Nuova strada allo Stadio (che assunse il titolo di Francesco Baracca) e la strada adiacente la caserma Regina Elena (denominata semplicemente Via Caserma e ribattezzata via Oberdan – in onore all’omonimo patriota irredentista italiano – dopo che la locale prefettura bocciò il nome di Gabriele d’Annunzio, ancora vivente). Quattro anni più tardi, per volontà del CONI e su spinta del Regime, le quattro realtà calcistiche cittadine (A.C. Mestre, Mestre F.B.C., Spes e Libertas) si fusero dando vita alla Mestrina: da qui, formalmente, si dà il via alla tradizione sportiva del club che – tra fallimenti, fusioni e ripartenze – è arrivato ai giorni nostri.
Dettaglio non da poco, che si riverbererà poi negli anni anche sulle storie calcistiche dei due rispettivi club, è l’inglobamento, datato 1926, del comune di Mestre in quello di Venezia. Passaggio che, tra gli altri, fa sì che nel 1933 lo stadio passi sotto il diretto controllo del comune veneziano. Curiosità: nel 1982, con la promozione del Mestre in C (che dal 1982 assumerà questo nome al posto di Mestrina) le due curve vengono abbattute e rifatte, migliorando sia la capienza che la struttura. Questo fa sì che il tifo organizzato, sino a quel momento in Baracca, come già detto si trasferisca in Oberdan, fino al 2017, per poi ritornarci un paio di anni fa. Da un punto di vista prettamente calcistico, è innegabile che il 1987, la scelta di Zamparini di dar vita all’Unione e l’iniziale sparizione dei due storici sodalizi, rappresenti uno snodo cruciale per il calcio veneziano e mestrino. Eviterò di entrare troppo nei dettagli della questione, perché credo che andrebbe trattata a parte e interpellando tutte le parti in causa. Mi limito a un commento più “democristiano” (abbiate pazienza), sottolineando come alla lunga sarà soprattutto sulla terraferma che si spingerà per ridar vita agli arancioneri. Tra milioni di difficoltà, continui fallimenti e sparizioni, ma complessivamente potendo sempre contare su un seguito importante. Il senso di appartenenza al Mestre è un qualcosa di tangibile tutt’oggi, basti vedere le presenze nei match di cartello o nei momenti clou. Contestualmente lo stadio – o per meglio dire, tutte le limitazioni cui è soggetto – rappresenta una spada di Damocle e un freno a mano per i tifosi, i quali sanno che in caso di ritorno tra i professionisti dovrebbero traslocare ancora fuori comune e, di conseguenza, hanno costantemente la sensazione di giocare un campionato la cui massima aspirazione può essere quella del mantenimento della categoria (uno dei motivi per i quali, nel 2018, il sodalizio rinunciò all’iscrizione in Serie C, fu proprio il dover giocare forzosamente a Mogliano Veneto).
Finito il piccolo tour (altro che museo del Real Madrid, experience al Camp Nou o sfilata dei trofei del Manchester United!) possiamo immergerci nel pre partita, facendo la conoscenza con due personaggi che impersonificano appieno tutto quello che c’è dietro al pallone e che stimola la nostra allegria e ci induce a ritornare ogni domenica sulle gradinate. Sto parlando dei gemelli Zennaro: Franco e Sergio. Ottantaquattro anni suonati, bicicletta per raggiungere il Baracca, sciarpa al collo, birra in mano e battibecchi continui e piccati sulla Juventus e sulla Fiorentina (di cui, dopo il Mestre, sono seguaci). Il tutto, ovviamente, in dialetto. Cosa volere di più? Solo il restare ad osservarli vale il tempo speso per il viaggio. Ci raccontano di andare praticamente da sempre allo stadio, e lo fanno con un’energia quasi contagiosa, “spalleggiati” anche dalle generazioni più giovani. Il che dà l’idea del bell’ambiente creato attorno agli arancioneri. I numeri non saranno stratosferici, ma lo spirito è quello scanzonato e passionale di chi non è disposto a mollare di un centimetro. Il gruppo si avvia in corteo verso gli ingresso, arrivando davanti alla biglietteria – dove alcuni ne approfittano per acquistare il tagliando con l’ormai rarissimo gesto del semplice pagamento, senza bisogno di mostrare tessere o documenti – ed entrando alla spicciolata in curva. Anche per noi è arrivato il momento di “tornare” dentro, ma stavolta con il pubblico presente.
Le tante scritte e i diversi murales che si stagliano all’interno dello stadio, parlano di una tradizione ultras consolidata. Rimasta in piedi malgrado le intemperie. Volendo ripercorrere la storia del tifo organizzato locale, si può dire che i primi vagiti risalgono agli anni settanta, quando diversi gruppi di tifosi si ritrovano nel settore popolare con bandiere e tamburi, organizzando cori e sostegno che tentano di andare al di là dello spontaneismo. Nella seconda metà di questo decennio nascono il club dei Fedelissimi e la Fossa dei Leoni, che pur non essendo propriamente ultras avevano al loro interno personaggi che negli anni successivi diverranno punti di riferimento della curva. È all’inizio degli anni ottanta che si registra una vera e propria svolta, con la nascita dei Fedayn (1981), prima sigla ultras al Baracca. Curiosità: la scelta del nome prenderà spunto dall’omonimo gruppo partenopeo, tanto che i mestrini si recheranno addirittura a Napoli per chiedere la loro approvazione. Nella stagione 1981/1982, in concomitanza con la promozione in C1, cresce l’entusiasmo e crescono notevolmente i numeri. Ai Fedayn si affiancano gli Orange Supporters, provenienti principalmente da Favaro Veneto e dai quartieri Carpenedo e Bissuola, con sede nel Bar Centrale: una cinquantina di unità fisse, molto rispettati, alcuni dei quali faranno la storia del movimento ultras mestrino; sebbene nel momento della fusione col Venezia, in molti passeranno al seguito dell’Unione. Sempre nel 1982 fa la sua comparsa un altro dei principali gruppi della Nord, gli Hell’s Commandos. In rapida sequenza prendono vita anche i Viking, con sede al Bar Novo di Via Bissuola (alcuni dei suoi componenti formeranno dopo l’87 la Brigata Mestre, nella curva unionista). Qualche anno dopo viene realizzato lo striscione Vecchia Guardia, che unisce più gruppi. Nel 1985 la spinta delle nuove generazioni porta alla nascita di ulteriori gruppi minori: i Boys, ragazzi di Carpenedo e viale San Marco, e i Mods. Nel 1986 nascono gli Head Out, che avranno l’onere di restare arancioneri (nonostante la scissione al loro interno) anche dopo il 1987. Sono, di fatto, l’unico gruppo presente sia prima che dopo l’accorpamento col Venezia.
Nel 1991 la squadra viene rifondata e nel 1995 nascono gli Ultras Mestre, portando allo stadio un ricambio generazionale a dir poco vitale per l’epoca. Alcuni di loro torneranno a seguire gli arancioneri dopo aver visto la denominazione VeneziaMestre sparire in soli due anni. Con l’avvento del presidente Dalla Costa, nel 2000, nasce la Brigata Arancionera, che in pochi mesi arriverà ad avere oltre 350 tesserati e altre due sigle minori in ausilio: gli A.S.U., ispirati palesemente all’omonimo gruppo della sud veronese, e gli Old Fans, che si distinguono per l’adozione di uno stile casual, ammiccante alle terraces britanniche. L’anno successivo la Brigata Arancionera e gli Old Fans si uniscono dando vita agli Irriducibili, gruppo che rimarrà attivo fino al fallimento della squadra, nel 2003, sebbene non si sia mai sciolto ufficialmente. Dopo il fallimento, il Mestre riparte dalla Terza Categoria, ma tutti i gruppi sospendono l’attività in attesa di un progetto serio e concreto di risalita, che puntualmente non arriva, con la squadra che nel decennio successivo staziona tra Prima Categoria e Promozione. Sono gli anni più bui dopo la sparizione del 1987. In questo periodo l’unico gruppo che segue ufficialmente è la Brigata Ultrà, nata nel 2004. Nel 2014 la squadra passa all’attuale presidente Serena, che riaccende l’entusiasmo in città e nella stagione 2015/2016 torna a disputare il campionato di serie D. Nascono gli Orange Insanity, che hanno il merito di ricomporre la tifoseria e portare tanti ragazzi in curva. I più giovani formano il gruppo dei Bravi Fioi, mentre fa la sua comparsa anche la sigla Mestre Casual Firm. Nel 2017 il club torna in Serie C, ma dopo un solo campionato tra i professionisti – come accennato – soprattutto a causa degli annosi problemi legati allo stadio, la dirigenza decide di autodeclassarsi di due categorie e riparte dall’Eccellenza.
Arriviamo quindi all’attuale gruppo trainante, i Figli della Torre (nato nel 2022) che raggruppa elementi provenienti da Orange Insanity e Bravi Fioi. Un nome che vuole ribadire il legame con Mestre e la sua storia, facendo riferimento alla Torre dell’Orologio, ultima costruzione rimasta in piedi di un sistema di fortificazioni che è conosciuto come Castello di Mestre e che, fino al Settecento, ha rappresentato un importante “muro difensivo” contro invasioni e incursioni esterne. In particolar modo questa Torre era parte del Castelnuovo e solo grazie a ingenti lavori terminati nel 2009, ha potuto riprendere vita negli ultimi anni, venendo liberata dall’urbanizzazione post bellica che ne aveva quasi fatto scomparire la visuale. Opere che hanno dato vita anche alla piazzetta antistante, oggi molto frequentata dagli autoctoni. Quando si parla di Mestre, ovviamente, si fa riferimento alla frazione più grande e abitata del Comune di Venezia (a cui è stata integrata nel 1926 e che oggi conta 87.377 abitanti), dove ormai da decenni moltissimi veneziani della Laguna sono costretti a spostarsi a causa dello spopolamento delle isole. Ciononostante il centro ha ovviamente una sua storia, che alcune leggende citate dall’Iliade collegano ad Antenore, l’eroe fuggito dalla distruzione di Troia e rifugiatosi in una regione che chiamò Veneto, fondando successivamente Padova: al suo seguito c’era anche Mesthle, che invece si stanziò in un bosco di fronte alla Laguna, fondando una città fortificata che chiamò, per l’appunto Mestre. In realtà sembra che già in epoca romana esistesse un castrum – su cui poi venne eretto Castelvecchio – il cui nome era legato al corso del fiume Marzenego. L’industrializzazione, le colate di cemento e, ovviamente, la vicinanza con un colosso storico e tradizionale come Venezia, hanno fatto quasi sparire, nella percezione popolare, tutto l’excursus storico legato a questo territorio, che in molti si limitano a guardare come un dormitorio. A mio avviso bisogna sempre cercare di preservare il passato e l’anima di qualsiasi luogo, anche di quello che può sembrare più ameno. Quantomeno per capirne nomi, topografia e riferimenti culturali. Ecco perché apprezzo infinitamente la tendenza che il tifo organizzato ha da sempre nel ripescare e far riemergere nomi e simboli storici, legati alla propria terra natia. Una grande contraddizione, se si pensa allo stereotipo con cui le curve vengono sovente indicate: composte da orde di ignoranti prossimi all’analfabetismo. La realtà è sempre una: le gradinate restano un contenitore variegato, dove – esattamente come nella vita di tutti i giorni – si possono trovare persone poco scolarizzate, ma anche soggetti che nella curva riversano tutto il loro sapere per render grande il nome della propria città, difendendolo anche attraverso il gonfalone calcistico. E, in fondo, è proprio questo mix scevro dal classismo a rendere longevo e ancora vivo il movimento ultras.
È arrivato il momento di vedere da vicino questi Figli della Torre, respirando a pieni polmoni l’odore dell’erba da poco annaffiata e calpestando simpaticamente le zolle ondivaghe del manto verde. La musica spacca timpani, purtroppo, si è ormai appropriata anche di queste categorie e, sinceramente, verrebbe davvero da chiedere il perché ci si ostini a tediare i presenti con melodie inascoltabili, che paradossalmente danneggiano il primo concetto per cui lo stadio esiste: la socialità. Tanta è la voglia di copiare i “fratelli maggiori” della Serie A che, per qualcuno, evidentemente, non è poi così patetico dare un tocco circense anche a categorie dove prevale ancora l’agonismo e un certo grado di sana “ignoranza”. Che poi sarebbero anche la base di questo sport, benché in molti oggi sembrino quasi vergognarsene. Chiusa la parentesi boomer, apro quella relativa all’incontro, sicuramente più piacevole. A ridosso del fischio d’inizio fanno il loro ingresso i supporter chioggiotti, un centinaio scarso. La loro squadra sta letteralmente “uccidendo” il campionato e, con tutta probabilità, il ritorno nel professionismo verrà sancito parecchie giornate prima del termine. Ironia della sorte – quella che mi ha impedito di assistere a Mestre-Treviso -, mi ritrovo al cospetto della stessa partita fatta all’andata, ma a campi invertiti. Va detto che anche qualche mese fa, al Ballarin, ebbi davvero modo di divertirmi, passando una giornata in un impianto e una città molto particolari, che sicuramente meritano di stare nella mia personale top ten di quest’anno. Tra le due fazioni c’è sostanziale indifferenza, malgrado un sentito gemellaggio terminato a inizio anni duemila e soppiantato, su sponda granata, dall’attuale fratellanza con alcuni gruppi del Venezia. Alla fine si conteranno 1.350 spettatori, un numero di tutto rispetto considerata la media del girone e il campionato, tutt’altro che esaltante, dei padroni di casa.
Gli ospiti – forse un po’ scarni per quanto riguarda colore e materiale, con un solo bandierone e una piccola pezza – si fanno subito sentire con battimani e cori secchi, mantenendo una buona intensità nel primo tempo e calando, leggermente, in alcuni tratti della ripresa. Rispetto ai mestrini, i granata sembrano prediligere di più uno stile secco e inquadrato, sfoggiando un total black che caratterizza lo zoccolo duro. Più colorati e “anni ’90” i mestrini, che come sempre danno grande spazio a bandiere, cori tenuti a lungo e ritmati dal tamburo e alla sciarpata finale, evidenziando una bella eterogeneità di curva, cosa che è sempre interessante riscontrare in realtà non metropolitane e/o galvanizzate da momenti sportivi particolarmente brillanti. Quando, a più riprese, mi porto sotto la Nord per osservare da vicino gli arancioneri, è palese come questi ultimi abbiano a tutti gli effetti uno stampo popolare, che solo le vicissitudini sportive degli ultimi trentacinque anni hanno talvolta messo in pericolo. Oltre ai succitati gemelli, nel settore sembrano esserci persone di ogni estrazione sociale, che sposano e seguono molto volentieri la guida dei ragazzi col megafono in mano. Inveendo, contestando le decisioni arbitrali e producendosi in una bella esultanza al momento del gol dell’1-1, che vale un prezioso pareggio con la capolista. Ti accorgi che una realtà è radicata e riconosciuta dalla città quando anche la tribuna composta da gente normale segue con veemenza le fasi di gioco. E indubbiamente è sempre un piacere. Mentre un altro bel siparietto è quello che si consuma tra alcuni tesserati delle due squadre a fine partita, palesemente in preda al nervosismo. Dispiace per i cantori del calcio fatto di zuccherini, pacche sulle spalle e bambini che si scambiano le sciarpe mentre la follia ultras divampa a pochi metri, ma queste situazioni sono solo il naturale corollario di qualsiasi competizione agonistica. Questa mania di dover far diventare qualunque disciplina – ma soprattutto il calcio – delle opere di bene, è davvero patetica!
Restiamo a centrocampo ancora per un po’. Sia per scattare le squadre sotto ai rispettivi settori, che per ammirare gli ultimi scampoli di stadio al momento del deflusso. Dopodiché riconsegniamo le pettorine, vediamo i gemelli salire sulle loro biciclette e ci avviamo verso la stazione, dove Matteo a breve dovrà far ritorno verso casa, mentre io – manco a dirlo – posso girovagare ancora qualche ora, in attesa del mio pullman per Roma. In questo lasso di tempo raggiungo due obiettivi: il primo è tornare a fare un giretto attorno allo stadio, ormai fagocitato dalle luci della sera, il secondo è realizzare uno stoico quanto degradante tour di quelli che, a vista, mi sembrano i peggiori bar di Mestre. Ho sempre creduto che nella vita sia necessario avere della ambizioni e, personalmente, in questo dopo partita io ho ampiamente esaudito le mie! Me ne riparto in pace con me stesso, ma soprattutto contento per aver messo in cassaforte un’altra esperienza significativa, nonché un pezzetto dell’Italia calcistica e del tifo. Mi lascio alle spalle le luci della Torre dell’Orologio e le immagini della Curva mestrina, con ragazzi e ragazze a professare la loro fede e non voler mollare una militanza che in questo momento storico non conosce ambizioni (tanto per rimanere in tema) sportive, ma ha il grande compito di tener viva la presenza dei colori arancioneri in città. Non si è grandi quando si calca un palcoscenico grande, ma lo si è quando si riesce a dar linfa quotidiana ai propri amori e al proprio senso di appartenenza. Un po’ come quella scritta sui muri dello stadio: “Torneremo in Oberdan”, che più di un grido di battaglia, risuona come un grido di resistenza alle intemperie della nostra epoca, alla sua voglia di distruzione della tradizione e di ciò che può essere ancora un “tempio”. Alla fine i ragazzi ci sono tornati davvero in Oberdan e di sicuro finché ci sarà un’ultima persona disposta a contrastare la mentalità burocrate italiana in luogo di novanta minuti nella propria casa, un minimo di speranza potrà essere coltivata
Simone Meloni