Quando il treno ferma la sua corsa nella stazione di Monza, uno stuolo di tifosi giallorossi scende dal convoglio cantando a squarciagola e dirigendosi verso il Brianteo. Cerco di rimanere dietro loro, per avere un’istantanea di questo corteo spontaneo, piacevole da vedere considerati passanti e normali passeggeri che storcono la bocca osservando la “mandria selvaggia” che squarcia il tranquillo pomeriggio brianzolo. Prima di seguire anche io il loro percorso non posso far altro che guardare, quasi nascoste dalla linea aerea della ferrovia, le luci del vecchio stadio Sada. Anni fa capitai a Monza quasi per caso e, dovendo perdere alcune ore, visitai subito quella che dal 1945 al 1988 è stata la casa dei colori biancorossi. Un campo retrò, che malgrado l’abbattimento di tre tribune su quattro, lascia ancora ben intendere quanto potesse essere difficile espletare un normalissimo servizio d’ordine la domenica: stretto tra i palazzi, a “portata di corteo” per i gruppi provenienti dalla stazione (quando i cortei non erano materia per influencer e youtuber, ma spesso e volentieri portavano con loro una discreta dote di violenza e disordine) e con gli spalti praticamente “in campo”. Bassi e grezzi, di quelli che con la pioggia diventano quasi neri tanto l’acqua riesce a penetrare nel cemento. Alla mente mi ritornano le immagini delle sfide col Milan in Serie B, dalle quali si intuisce chiaramente come quelle gradinate dovessero essere oltremodo popolate, cosa che a quei tempi non solo non faceva scalpore, ma risuonava quasi per tutti normale e parte integrante dello spettacolo.
Il Sada – che deve il suo nome a Gino Alfonso Sada, padre di Claudio, presidente che a cavallo tra i ’50 e ’60 sfiorò per diverse volte la promozione in A – poggia su un terreno che fino al 1930 era adibito a cimitero comunale, il San Gregorio. A testimonianza di questo passato, proprio dietro al campo, oggi rimane una piccola chiesa, detta Cappelletta, mentre fino agli anni cinquanta l’impianto veniva ancora chiamato San Gregorio, per poi mutare in Città di Monza e, infine, nell’attuale denominazione. Oggi, per chi non ha vissuto quell’era e non ha visto neanche un video di quegli anni, appare difficile immaginare tutti i settori in piedi, con i Centrali popolati dagli ultras a rendere il clima infernale, inumiditi dalla guazza che il Lambro – posto proprio alle spalle del settore – doveva puntualmente emanare. Così come può apparire inconcepibile che partite della seconda divisione professionistica venissero svolti in simili stadi, eppure questo eravamo. E proprio grazie a questo siamo diventati un punto di riferimento del calcio e soprattutto del tifo europeo. Oggi il vecchio Sada vede ancora il pallone rotolare, sebbene a essere protagonista sia la Fiammemonza, storica società di calcio femminile locale che da anni permette il mantenimento dell’impianto e a più riprese ne ha anche promosso la ristrutturazione. Per chi, come me, cerca di vedere oltre la semplice partita per cui si è accreditati, fare un salto in questi luoghi è fondamentale, anche solo per capire il passato della società di casa e carpire il sogno che per più di cento anni ha spesso tormentato i cuori e le anime dei tifosi monzesi: la Serie A.
Con oltre 122.000 abitanti (terzo comune della Lombardia) Monza è ormai da diversi anni capoluogo di provincia, avendo suffragato, così, quell’identità che – malgrado la vicinanza – non la identifica come Milano o un suo quartiere. Guardando superficialmente le cose e pensando ai soli dieci minuti di treno che la separano dalla stazione Centrale, si potrebbero trarre frettolosamente conclusioni sbagliate. Ovviamente è innegabile l’influenza e il legame con la metropoli, ma è altrettanto radicata l’identità monzese, che trova la sua cartina al tornasole nel calcio. Motivo per cui – ci tornerò più avanti – trovo a dir poco errato mettere sullo stesso piano l’esordio dei biancorossi in Serie A con la passata o presente militanza di club che in quanto a storia e radicamento sul territorio hanno poco e niente. E chi mastica ultras, oltre che calcio, sa bene a cosa e a chi mi riferisca. Faccio spesso riferimento all’importanza strategica ed economica delle strade consolari romane nello sviluppo dei centri urbani. Non posso esimermi in questo caso, citando la Via Spluga, arteria che per secoli ha congiunto Milano a Lindau (sul Lago di Costanza, sponda bavarese), valicando le Alpi e transitando anche per Monza, favorendone la crescita e l’importanza. Questa strada era conosciuta anche come Via Aurea, perché permetteva il raggiungimento delle numerose miniere d’oro installate nei pressi dello Spluga, nel versante occidentale della Alpi. Un aspetto che, se vogliamo, ci lascia anche intendere perché questa zona sia sempre stata interessata da una fiorente economia e nelle diverse epoche abbia rappresentato un punto di crescita delle economie locali e dei vari governi che l’hanno amministrata.
Ma l’importanza di Monza e la sua crescita sono inevitabilmente legate al dominio longobardo, quando la città divenne Capitale estiva del regno. Periodo al quale, peraltro, è legata la storia del suo nome: secondo una leggenda, infatti, la regina Teodolinda, per riposarsi durante una battuta di caccia del re e della corte longobarda, si addormentò lungo la riva del fiume Lambro. In sogno avrebbe visto una colomba, simbolo dello Spirito santo, che le avrebbe pronunciato la parola modo, ad indicare che avrebbe dovuto dedicare quel luogo a Dio. La regina a quel punto avrebbe risposto etiam, indicando la sua piena accondiscendenza al volere divino. Dall’unione delle due parole modo ed etiam sarebbe poi quindi nato il nome della città: Modoetia. L’episodio è narrato da una serie di affreschi realizzati all’interno del bellissimo Duomo cittadino, opera artistica che – assieme alla Reggia realizzata durante il dominio asburgico – riconsegna al visitatore l’immagine più significativa del centro brianzolo. Sarebbe ingiusto tediare il lettore con un approfondimento storico di quantità notevoli, ma va detto che per la storia passata e presente del nostro Paese quest’area è davvero ricca di episodi che ne hanno segnato epoche e crocevia. Saltando più in là di qualche secolo, ad esempio, in molti identificano Monza come la città dove l’anarchico Bresci attentò e uccise Re Umberto I e molti altri – inevitabilmente – la collegano alla Monaca resa celebre da Manzoni ne I Promessi Sposi. Quella “murata viva”, per intenderci. Una narrazione che attinge ad una storia vera, quella di Marianna de Leyva, divenuta Suor Virginia Maria, protagonista di una tresca con il conte Gian Paolo Osio e “incarcerata” dall’arcivescovo Francesco Borromeo nel Ritiro di Santa Valeria (luogo all’epoca deputato alla redenzione di ex prostitute) per quattordici anni. Nella versione manzoniana la Monaca è Gertrude e la storia viene a tratti romanzata. In ogni caso, ricollegandoci a questioni di curva, la pezza portata dai brianzoli, “Monaci di Monza”, strappa sicuramente più di un sorriso!
E dunque, con tutta la sua storia e tutto la sua appartenenza, come si vive a Monza una squadra di calcio che da centododici anni insegue la sfera di cuoio a poco meno di trenta chilometri da un luogo sacro per il football italiano come San Siro? Chiaramente Milan e Inter fagocitano la maggior parte degli sportivi, sarebbe stupido negarlo. Eppure uno zoccolo duro che ha sempre accompagnato le sorti dei brianzoli c’è e negli anni si è ritagliato un discreto spazio all’interno del panorama nazionale. Partiamo dal principio. E più precisamente dal 1912, quando alcune realtà cittadine (la Pro Italia e la Pro Monza) si uniscono, dando vita al Monza Foot-Ball Club, che l’anno dopo si fonderà con la Juventus e il Veloce Club, facendo nascere l’AC Monza, che inizia la sua storia sportiva dalla Terza Categoria Regionale. Inizialmente la squadra gioca in divisa biancoceleste, senza una ragione specifica ma per mera “convenienza”: un commerciante di stoffe, infatti, decide di regalare alla dirigenza diversi tessuti di quei colori. Solo l’11 settembre del 1932, in occasione della Coppa del Ventennio contro la Falck Sesto San Giovanni, scenderà in campo con una casacca bianca attraversata da una banda verticale rossa. Scelta che, pur subendo alcune variazioni, sarà confermata fino all’arrivo in Serie B, nel 1951, quando si tornerà a una maglia celeste con una banda biancorossa laterale. La variazione definitiva, quella che porterà all’identificazione cromatica attuale, è datata 1971, quando la maglia torna definitivamente rossa con la banda verticale bianca spostata a sinistra. L’attuale stemma, invece, risale agli anni ottanta, quando un’opera di rebranding aggiunse alla corona ferrea – presente da sempre sulle casacche monzesi – anche la spada di Estorre Visconti.
Con la nascita del sodalizio, uno dei primi problemi è ovviamente il terreno di gioco: inizialmente la Pro Victoria, una società cittadina, “concede” il proprio alle neonata società, mentre due anni più tardi – dopo aver raccolto la cifra di 3.000 Lire per la costruzione di una tribuna – il club si installa dietro il Santuario delle Grazie Vecchie, inaugurando il terreno di gioco con un’amichevole che vede protagonisti Milan, Chiasso e Juventus Italia. Nel 1923, con un’altra amichevole, stavolta contro la Fiumana, i biancorossi si trasferiranno di nuovo, stavolta al Campo di Via Ghilini, dove stanzieranno fino al 1945. In questi primi anni di vita da registrare un episodio datato 1917, dove in seguito a una partita della Coppa Saronno tra i biancorossi e il Legnano, la squadra lilla e l’arbitro vengono inseguiti fino alla stazione divenendo oggetto di una fitta sassaiola. Fatti che portano alla squalifica di tre anni del Campo di Via Ghilini (poco distante dal Sada e ridotto allora in pessime condizioni, tanto che – come da racconti di giocatori dell’epoca – d’inverno l’acqua gelava e gli sportivi erano costretti a rompere il ghiaccio per usufruire dell’acqua. Dopo l’approdo al Sada le istituzioni cittadine fecero in modo di trasformarlo in campo federale e ancora oggi viene usato per il settore giovanile e scolastico) e, in seguito alla sanzione di cinquanta Lire non pagata, all’abbandono dei tornei della FIGC per partecipare alle kermesse organizzate dalla ULIC, federazione allora indipendente che si occupava perlopiù di tornei giovanili. Grazie a un condono della sanzione, il Monza torna a disputare campionati federali nel 1919. Negli anni cinquanta arriva la prima Serie B e da là sarà una continua altalena tra secondo e terzo gradino del calcio professionistico (nella classifica perpetua della cadetteria i brianzoli vantano il sesto posto, con quaranta partecipazioni), lambendo in diverse occasioni la Serie A ma non riuscendo mai nell’impresa, sebbene nel 1976 arrivi l’affermazione nel Torneo Anglo Italiano: indimenticabile la finalissima contro il Wimbledon decisa da una rete di Casagrande davanti ai 4.000 del Sada.
Nel 2015 arriva il fallimento e con esso la discesa negli inferi del dilettantismo. I biancorossi, tuttavia, risalgono dopo due stagioni in Serie C e, nel 2018, il club viene acquisito da Silvio Berlusconi. Ovviamente è un salto di qualità economico e sportivo non indifferente, che dapprima riporta il Monza in Serie B e, infine, corona un sogno durato centodieci anni: è il 29 maggio del 2022 e all’Arena Garibaldi di Pisa, al termine di una gara rocambolesca, gli uomini allenati da Stroppa ribaltano l’iniziale vantaggio dei toscani e si impongono per 3-4, risultato che sommato al 2-1 conquistato al Brianteo sancisce la storica promozione in Serie A. Non sta a me giudicare vizi e virtù del calcio e dei suoi dirigenti e sicuramente sono la persona meno vicina a Fininvest e alla Famiglia Berlusconi, mi preme però sottolineare un aspetto (che deve scernere da ciò che si possa pensare della sua presidenza al Milan o dalla sua attività politica): la gestione del Monza non penso abbia avuto un modus operandi “anti-calcio”, almeno non più di come avviene con i tanti fondi che ormai si appropriano delle società ignorandone totalmente storia e tradizioni. Personaggi come Galliani – che di Monza è nativo – conoscono bene la piazza e, in generale, sinora non mi è sembrato di vedere maglie stravaganti, simboli stravolti, attacchi al legame tra città e squadra o al tifo organizzato. Ovviamente l’arrivo di liquidità e competenze sportive (piaccia o meno questo gruppo dirigenziale ne ha da vendere, ed è la storia a parlare per esso) ha fatto fare un netto salto in avanti al sodalizio, ma non mi trovo assolutamente d’accordo con chi lo dipinge come un qualcosa di artefatto, finto o semplicemente figlio del “calcio moderno”. Il Monza non è salito da un momento all’altro perché divenuto giocattolo di una famiglia – che magari ha ben pensato di traslocare in un altro stadio per giocare i match interni – e anche a livello ultras ha sempre potuto contare su un seguito. Magari non parliamo di chissà quali numeri, ma senza dubbio quelli della Curva Pieri si sono conquistati il rispetto sul campo. E posso dire ciò dopo averli davvero visti all’opera in ogni categoria. Se poi c’è qualcuno che giudica una tifoseria in base alle presenze (posto che sinora ai monzesi non si può nemmeno recriminare questo aspetto, fatte le dovute proporzioni con una realtà alle porte di Milano) allora alzo le mani. Però mi soffermo su una considerazione: molta della provincia italiana che oggi ancora ammiriamo e rispettiamo, è balzata agli onori della Serie A negli anni ottanta, epoca in cui non esistevano “maestri” e “giudici” da social a decretare quale tifoseria fosse degna di questa categoria e quale no. E proprio grazie a quelle esperienze hanno potuto ingrandire le fila e raccoglierne ancora oggi i frutti. Feci questo discorso, anni fa, per Benevento, lo ripeto per il Monza. E concludo: negli ultimi vent’anni tra A e B abbiamo davvero visto realtà societarie e del tifo improponibili, sparare a zero sui brianzoli – magari perché poco simpatici nel loro establishment – lo trovo davvero superficiale.
Il cielo plumbeo e qualche gocciolina che di tanto in tanto cade, non sono affatto un bel presagio per il sottoscritto, così mi armo di buona speranza e mi incammino verso il Brianteo, costeggiando per buona parte del percorso il Lambro, in piena dopo giorni di pioggia fina e costante. Assieme a me ancora tanti ragazzi con la sciarpa giallorossa al collo, mentre nei bar i tifosi di casa sembrano passare il proprio pre-partita con tranquillità, prima di fare ingresso allo stadio. Una curiosità: l’inaugurazione del nuovo impianto monzese avvenne proprio contro la Roma, in occasione di una partita di Coppa Italia datata 28 agosto 1988 e vinta dai padroni di casa per 2-1. In quell’occasione sembra che alcuni milanisti provarono, invano, a entrare nel settore ospiti per sottrarre gli striscioni allo scarno manipolo di giallorossi presenti (con striscione Ultrà Roma), storie di curva che furono, che tuttavia ci fanno anche riflettere su quanto – successivamente – il concetto di “mentalità” abbia un po’ smorzato questo spontaneismo che rendeva pericolose trappole anche le trasferte all’apparenza più tranquille. Sempre sul Brianteo, la sua realizzazione ha avuto un’incubazione di quasi dieci anni: la prima idea venne infatti esposta nel 1979 dall’allora presidente Valentino Giambelli, provocando una notevole discussione nella comunità. Personalmente è un impianto che ho sempre avuto la curiosità di vedere, forse perché rimasto ben impresso nella mia mente grazie alle immagini anni novanta di “A tutta B”, con quelle curve contraddistinte dalle inferriate dove i gruppi attaccano le proprie pezze, molto retrò. L’acquisizione del club da parte di Berlusconi ha permesso di sanare la valanga di debiti e ripristinare vari settori abbandonati in seguito al fallimento del 2015, pertanto attualmente con la capienza di 16.917 spettatori e tutti i settori agibili, il Brianteo è senza dubbio adatto alla massima categoria e con una copertura diverrebbe probabilmente davvero un gioiellino.
L’odore acre delle salsicce cotte sulla piastra mi dà il benvenuto quando gli ingressi si avvicinano. Prima di entrare mi concedo un giretto attorno al perimetro dello stadio, osservando i tifosi di casa entrare nella propria curva e quelli romanisti passare, praticamente, in ogni angolo, convogliando verso il loro settore. Dal loro arrivo nella massima serie gli ultras brianzoli hanno sempre onorato la presenza e dimostrato, a mio modo di vedere, intelligenza nell’affrontare realtà storiche e navigate, oltre a veri e propri mostri sacri. Parliamo di una tifoseria che, come detto, ha avuto modo di fronteggiarsi con molti avversari in questi decenni e che, anche grazie alla sempre più consolidata guida dei SAB, ha fatto della goliardia una propria arma. Basti pensare al coro cantato sulle note de Gli Anni: “Gli anni d’oro della Curva Sud, gli anni del Graziosa e il Pornogroup, gli anni delle gran coreografie, gli anni a Fiorenzuola sempre in due, gli anni di che bella era la C, gli anni con De Falco in Serie B, gli anni del dovunque giocherai, gli del tranquillo siam qui noi, siamo qui noi…Non vinci mai!”. Strofe che riassumono, tra il serio e il faceto, anni di storia ultras monzese, non rinnegando di certo i campi delle categorie inferiori e soprattutto il seguito sparuto, quando a rappresentare il capoluogo per l’Italia erano solo pochi indomabili ragazzi.
Le due curve vanno lentamente riempiendosi, con il settore ospiti che registra sold out e i gruppi della Sud (fatta eccezione per Gruppo Quadraro) che si radunano dietro la bandiera con la Lupa Capitolina, lasciando intendere la loro presenza con l’incessante sventolio dei singoli bandieroni. Quando le squadre entrano in campo parte il classico “Roma, Roma, Roma”, colorato da qualche fumogeno e seguito da tutti, anche dai tifosi sparsi nelle due tribune. Dopodiché gli ultras capitolini cominciano a tifare e saranno protagonisti di una buona prova canora, aiutati anche dalla strabordante vittoria della loro squadra, che al triplice fischio si imporrà per 1-4. Sempre impattante il coro a rispondere e granitici alcuni battimani, storicamente marchio di fabbrica dei romanisti. Sarà una mia impressione, ma per avere un bell’impatto bisogna anche avere a disposizione un “bel” settore. In questo caso “rustico”, senza diavolerie in stile Juventus Stadium o terzo anello di San Siro. A ridosso del campo e con alcune persone attaccate alle grate per gridare ai giocatori in campo, cosa che fa molto partita di bassa divisione, rendendo davvero più umano il tutto. L’unico “neo” di queste occasioni, manco a dirlo, è l’eccessiva presenza di “massa”, che ovviamente impegna in maniera doppia i ragazzi deputati a coordinare il tifo. L’avere un grande bacino ha i suoi pregi, ma anche molti (troppi) difetti. Peraltro mi viene da notare come, soprattutto negli ultimi anni, sia incredibilmente cresciuto il seguito giallorosso nel Nord Italia.
Di contro, accanto a me, non posso far a meno di “ascoltare” la presenza di molti tifosi interisti, milanisti e juventini, accorsi semplicemente per vedere la partita. È altrettanto palese che il cuore pulsante del tifo monzese, la sua anima e rappresentanza, sia in Distinti e, soprattutto, in Curva Sud, dietro lo striscione dei Sempre Al Bar. Sinceramente, il loro nome mi ha sempre affascinato. Originale, goliardico e unico nel suo genere. Unico gruppo rimasto in piedi da tutto quell’universo nato nella tribuna centrale del Sada (1971) dietro allo striscione dei Commandos, trasferitosi poi in Curva Lambro sotto la guida della Legione d’Assalto e ovviamente degli Eagles (gruppo storico del tifo brianzolo) nei primi anni ottanta e proseguito al Brianteo con lo scioglimento di questi ultimi e l’avvicendamento della Gioventù Brianzola (1993), da una cui costola, nel 1994, nacquero per l’appunto i SAB. Dopo lo scioglimento della Gioventù (2001) diversi gruppi si sono affiancati, sicuramente da ricordare il Graziosa Group (nome che deriva dal bar dove il gruppo si radunava), ormai sciolto, i 1912 , Cederna e Libertà, che ancora presenziano sulle gradinate. Se ciò che resta del murales alle spalle della Sud di casa (“Sarà romantico”) per molti sarà un mistero, ad altri farà sicuramente sorridere ricollegandolo a un famoso coro sulle “cinesi”, che per diverso tempo ha imperversato nella curva biancorossa (la società, ignara di tutto, utilizzo questa frase per la campagna abbonamenti, sic!). Del resto è quell’essere guasconi a cui facevo poc’anzi riferimento, lo stesso che spinge i tifosi lombardi a invocare la Champions League, ricordando che tuttavia “se non arriverà, ce ne torniamo al bar” o a chiamare la loro fanzine Il Fiasco Spezzato. Immagino che proprio dall’alto di questo approccio, andare a Milano e battere l’Inter in casa, andare allo Stadium e battere la Juve a domicilio o rifilare quattro gol al Milan, per questi ragazzi sia stato un qualcosa di fantascientifico. Non per rivalità che ovviamente non possono sussistere, ma perché c’è chi si è ritrovato a partire dai baretti della provincia finendo la giornata con la propria squadra in grado di sbancare cattedrali del calcio italiano. Sia chiaro: non sto parlando di una favola. Le favole a questi livelli non esistono. Esiste la programmazione, l’avere una base economica e il saper fare calcio. Questo se vogliamo vederla da un punto di vista sportivo/gestionale.
Tornando alla partita odierna: i brianzoli fanno la loro parte e alla fine c’è ben poco da eccepire. Col Monza mai veramente in partita, gli ultras cantano fino all’ultimo minuto di recupero, accendendo qualche torcia, dilettandosi in una bella sciarpata nel secondo tempo e rimarcando tutta la loro fierezza nel sostenere una squadra che ha esaudito il sogno proibito di una tifoseria. Logico che il tutto finisca, dunque, con il succitato coro sulla Champions League, che probabilmente oggi vedrà realizzarsi soprattutto la parte relativa al bar e con diverse “frecciatine” ai comaschi, rivali di sempre, che ovviamente trovano la partecipazione di tutti. Al triplice fischio le due squadre si portano sotto ai rispettivi settori, raccogliendo gli applausi e rientrando negli spogliatoi poco dopo. Mentre la curva romanista comincia a spopolarsi, per permettere a tutti di risalire sulle proprie macchine o riprendere il treno, in Sud i padroni di casa continuano a rumoreggiare con qualche coro. La pioggia li/ci ha graziati e salvo qualche gocciolina, un clima tipicamente padano ha fatto da contorno a questo match. Cosa che ritengo apprezzabile, giusto che ogni tanto latitudini e longitudini del nostro Paese rispecchino le proprie peculiarità metereologiche.
Anche la mia giornata da stadio sta per finire e non mi resta altro che riporre i miei effetti personali e guadagnare la via d’uscita. Altri tre chilometri a piedi e sono di nuovo in stazione, circondato nuovamente dai festosi e chiassosi tifosi della Roma. Quando il convoglio arriva il capotreno scende, prima di fischiare per la ripartenza, guardando la banchina nera di gente e la polizia intenta a far arretrate le persone dietro la linea gialla sconsolo. Rispetto al viaggio d’andata – iniziato dalla stazione Centrale – stavolta arriverò a Porta Garibaldi. Poco male. La stanchezza comincia a farsi sentire ma con essa la soddisfazione di aver finalmente potuto osservare da vicino un nuovo stadio e la sua tifoseria. Cosa che lo scorso anno era saltata all’ultimo momento. Conserverò un bel ricordo di questo sabato lombardo, che ancora una volta mi conferma quanto sia importante osservare e farsi domande ben oltre gli steccati mentali e i pregiudizi di qualcuno. Quando si scava dietro al pallone si trovano storie e pezzi di società incredibili. Peccato per chi non lo fa e si ferma soltanto a parlare di tattica o, peggio ancora, asettiche analisi sulle statistiche da riversare poi nelle proprie partite di fantacalcio.
Chiudo citando una celebre (almeno per gli amanti del genere) frase di Renato Pozzetto nel suo Agenzia Riccardo Finzi… praticamente detective, dove interpretava un investigatore tifoso biancorosso che esclama: “Io sono del Monza, non riusciremo mai a venire in Serie A”. Un po’ come per quella canzone dove Rino Gaetano “incolpa” il fratello immaginario per non credere nel Frosinone in Serie A, anche qui va detto che una volta tanto la realtà ha superato l’immaginazione di artisti consolidati del nostro scacchiere musicale/televisivo!
Simone Meloni