Aeroporto di Fiumicino, ore 4:30 di mercoledì 23 ottobre 2024. Un sonno prepotente e a tratti asfissiante mi fa maledire la scelta di essere andato a letto dopo mezzanotte, facendo risorgere in me i “Fantasmi di Vienna”, che per chi non lo sapesse – legittimamente – corrispondono alla clamorosa “dormita” fatta davanti al gate dell’aeroscalo austriaco lo scorso anno, con volo per Bucarest perso. Non a caso, stavolta, mi piazzo in prossimità degli imbarchi ancor prima che gli stessi aprano, costringendomi a rimanere in piedi e rimandando la “siesta” all’oretta di volo che mi separa da Fontanarossa. Ancora Catania, ancora una volta Sicilia nel giro di poche settimane. E stavolta per un match cerchiato di rosso ancor prima che uscissero i calendari. Una di quelle sfide imperdibili, innanzitutto per la rivalità intrisa di storia e campanilismo e poi per l’apertura, senza limitazioni, di tutti i settori. Giallorossi e verdeamaranto. Una notizia che neanche dovrebbe essere tale ma che in questa epoca di avvilente proibizionismo bisogna cogliere come tale! Una volta tanto sono costretto a rinunciare al mio amato treno, causa lavori sulla linea Catania-Palermo che rallentano tremendamente i tempi di viaggio verso l’entroterra siculo, costringendomi a prendere il pullman, che in poco meno di due ore mi scorrazza a Caltanissetta, dove torno a distanza di otto mesi dalla sfida contro la Pro Favara. In quel momento big-match dell’Eccellenza, in un girone dove alla fine saliranno sia i nisseni (vincendo il girone) che i favaresi (acquisendo il titolo del Canicattì).
Catallini contro maunzisi. Dopo quasi vent’anni dall’ultima volta (si è giocata una sfida anche nel periodo Covid, che tuttavia non consideriamo essendosi disputata a porte chiuse). Una rivalità infinita, permeata da secoli nel territorio, tra due centri divisi da appena nove chilometri, che per forza di cose da sempre interagiscono tra loro per commercio, rapporti personali, legami di sangue e, come detto, sano sfottò campanilistico. Quando immaginate questa partita, vedetela un po’ come se fosse una stracittadina. Sì, perché se nove chilometri separano i due centri storici, la distanza tra i confini comunali è nettamente inferiore e negli anni prossimi, con la continua espansione edilizia, andrà sicuramente a diminuire. In questa partita c’è tutto quello che i padroni del sistema calcio, le Questure, i Prefetti, i giornaloni moralmente integerrimi e il padre di tutti gli intellettuali della gestione dell’ordine pubblico – l’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive – combattono: la lotta fra “quartieri”, l’acredine contradaiola che ci ha reso celebri nel mondo e la voglia di confronto, di far prevalere la propria comunità, i propri colori e “annientare” l’avversario. Nemici che i signori succitati si sono presi la briga di combattere, in ossequio al momento storico che vorrebbe avviarsi verso l’azzeramento di certe tradizioni e modi di vivere lo sport. La verità? Oggi a Caltanissetta si è dimostrato come, volendo, il 99% delle partite possano giocarsi con la presenza di entrambe le tifoserie, grazie a un servizio d’ordine oculato, ben gestito e fatto con criterio. Ma attenzione, non la facciamo passare come una vittoria, dando adito a chi vorrebbe propinarci come eccezione un settore ospiti aperto o l’assenza di limitazioni – prese, sembra, su una base che discrimina la provenienza geografica – per accendere in un luogo pubblico come lo stadio. Anzi, dirò di più: oggi Questura e Prefettura nissene hanno sconfessato loro stessi relativamente alla recente decisione di vietare la trasferta ai siracusani che, per quanto storici rivali dei padroni di casa, sarebbero certamente venuti in numero inferiore, in uno stadio che già di suo è a dir poco sicuro.
Tralasciando tutto il consueto teatrino relativo alle questioni burocratiche, possiamo tornare al cuore di questa giornata. Che è poi è ciò che ne preserva l’aspetto più bello e significativo per qualsiasi “curvaiolo” o semplice amante del calcio e delle sue sfumature. A margine di quella sfida contro la Pro Favara, disputata nel febbraio scorso, ebbi modo di parlare lungamente della storia calcistica e cittadina di Caltanissetta, snodo fondamentale della Sicilia interna e culla per le varie culture che sono passate sull’isola, lasciando ognuna un qualcosa in eredità. Ovviamente non mi ero potuto esimere dal lambire la storia/leggenda che fece scaturire un’antipatia ancora oggi alquanto diffusa nei confronti del capoluogo da parte di molti paesi circostanti, su tutti, per l’appunto, San Cataldo. L’elevazione della città, sotto il dominio normanno e, in particolar modo, sotto quello della famiglia Moncada, rese importanti i suoi legami con i centri di potere: resta celebre la fedeltà nissena nei confronti della casata borbonica. Fedeltà che spesso creò frizioni anche con i centri attigui, i quali volevano liberarsi dell’oppressiva stretta dei regnanti, cercando un possibile modo di riscatto e valorizzazione di terre prestate, eternamente e in maniera poco lungimirante, al latifondo (in realtà la storia è ciclica e permanente sul territorio, quindi finirà per parlarci di situazioni ben diverse da quanto sperato e prospettato).
In tal senso va menzionata la ragione per cui, tutt’oggi, in molti definiscono i nisseni maonzesi, con fare dispregiativo: siamo nel 1820 e i Borbone sono malvisti da molti siciliani per le numerose promesse non mantenute e per lo smacco dello spostamento del capoluogo del Regno da Palermo a Napoli. In questo contesto si svolge una di quelle partite di “nicchia” della storia, che tuttavia spesso accende e inasprisce contese e rivalità, arrivando sino ai giorni nostri sotto forma di campanile e folklore. Caltanissetta – la fedelissima, la capovalle – poteva godere di diversi privilegi (su tutti la tassa sul macinato: l’economia della zona dipendeva quasi esclusivamente dal grano, lo zolfo sarebbe arrivato qualche decennio dopo), che al contrario non furono estesi al vicino comune di San Cataldo. In questo contesto, a differenza delle altre province, in cui a scontrarsi erano soltanto i rispettivi eserciti, presero parte anche diversi abitanti delle due città, in una furibonda battaglia dove alla fine si contarono centinaia di morti. Capo della provincia venne nominato il principe Galletti di San Cataldo, avverso storicamente ai nisseni e capofila nelle sanguinolente battaglie (le Battaglie di Monte Babbaurra) durante le quali i sancataldesi saccheggiarono e danneggiarono Caltanissetta. L’episodio che fece scatenare la rabbia dei sancataldesi e da cui deriva l’ingiuria di traditori, fu quando i nisseni chiesero una sorta di armistizio, ma uccisero l’ambasciatore mandato dal principe Galletti per trattare la pace, assalendo a sorpresa, per l’appunto, Monte Babbaurra. Da allora dunque nacque l’appellativo di “maunzisi”, ovvero “traditori” (derivato dal nome del personaggio Gano di Maganza, o Magonza, il traditore della Chanson de Roland, nota in Sicilia anche a livello popolare grazie all’opera dei pupi). Inutile dire che questa “dialettica” è stata ampiamente utilizzata in ambito curvaiolo: dispregiativamente dagli avversari, ironicamente e goliardicamente dai nisseni che sia in passato che oggi hanno prodotto materiale e coreografie con questo nomignolo.
Insomma, un retroterra storico e narrativo quantomeno degno di attenzione e approfondimento. Qualcosa che oggi, dunque, ritrova la sua naturale valvola di sfogo nel calcio. Lo dimostrano i numerosi striscioni appesi nelle due città nei giorni precedenti e l’attesa crescente giorno dopo giorno. Quando scendo dall’autobus, mi incammino tranquillamente verso il centro storico, espletando il primo, fondamentale, dovere della giornata: fare colazione con il cannolo, che peraltro di Caltanissetta è proprio originario. Per le strade incontro diversi ragazzi con maglie e sciarpe giallorosse al collo. Benché sia un mercoledì mattina, si percepisce appieno il clima partita, cosa che ovviamente non può che farmi piacere. L’ultima generazione ultras nissena sembra essere attiva, presente sul territorio, tanto che scritte e adesivi abbondano un po’ ovunque. Cosa non trascurabile per una città che ha sempre avuto calcio a intermittenza e spesso ha faticato anche nel ripartire assiduamente da un punto di vista curvaiolo. E per quanto – è vero – oggi sia una giornata speciale, sia nei numeri che nelle prestazioni, ritengo che nulla avvenga o si manifesti per caso. Innanzitutto significa che in questa comunità della Sicilia interna, lontana dai grandi riflettori di quell’isola vacanziera, assalita e a volte sfruttata dai turisti, la passione per il pallone e la volontà di preservare la propria identità ardano ancora forti e radicate. Ma vuol dire anche che in questi ultimi anni il tifo organizzato autoctono ha saputo prenderle per mano e indirizzarle.
Un’ora prima del fischio d’inizio lo stadio Tomaselli è già ampiamente presidiato da agenti e camionette, che progressivamente si frappongono nello stradone che costeggia la tribuna di casa, portando dalla Curva Nord al settore ospiti. I nisseni cominciano a scaldare i motori, posizionandosi a pochi passi dagli ingressi e intonando cori contro i rivali. Respiro a pieni polmoni un ambiente che giocoforza mi rimanda ai derby di inizio anni duemila, mentre osservo la masnada di gente che alla spicciolata si mette in coda, attendendo l’apertura dei cancelli. Uomini, donne, signori attempati, due ragazzine appena uscite di scuola che sghignazzano con la sciarpa al collo: c’è veramente di tutto, a testimonianza di quanto quest’evento sia in grado di calamitare anche gente che normalmente non gravita attorno al calcio. Queste sono le importanti occasioni in cui anche gli ultras possono portare dalla loro parte dieci, cinque ma anche una sola persona, magari ammaliata dalla giornata e dal loro modo sui generis di viverla. Nei giorni precedenti gli ultras della Nissa hanno diffuso un volantino per invitare tutti nel settore, ricordando il dress code nero. E infatti la macchia “black” è palese, composta da tantissimi giovani. Una risorsa, l’oro del futuro che se non verrà scalfito dalla repressione, dalle questioni sociali (l’emigrazione qui è fortissima) o da vicissitudini sportive quali fallimenti e retrocessioni, può rappresentare davvero una base grande e importante.
Quando mancano quaranta minuti all’inizio, decido di entrare e cominciare a godermi lo spettacolo direttamente dall’interno, anche perché a breve entreranno anche i tifosi ospiti e la “battaglia” più importante, quella delle gradinate, avrà praticamente inizio. La pista d’atletica del Tomaselli è occupata veramente da numerose persone: tra addetti ai lavori, fotografi, agenti in borghese, venditori di bevande e giocatori intenti a riscaldarsi, sembra uno di quei pre partita di vent’anni fa, quando non esistevano tutte le regole stringenti di oggi e, soprattutto al Sud, in campo trovavi veramente di tutto. Non a caso quest’oggi posso anche far a meno della pettorina, essendo certo che nessun direttore di gara verrà a chiedermi conto o a farmi uscire dal recinto di gioco. In questo, fortunatamente, certi eventi mantengono ancora tutta la loro identità fortemente meridionale. E con ciò non voglio dire che si possa fare tutto ciò che si vuole o fotografare in un certo modo la gente del luogo (cosa che per chi mi conosce non ci sarebbe neanche bisogno di sottolineare), semmai intendo che in un evento così partecipato e contraddistinto dalla passione di due popoli, c’è veramente difficoltà nello stabilire un filo conduttore ordinato in tutto e per tutto. Che poi, a mio modo di vedere, questa resta una grande arma a doppio taglio dell’italiano, in generale: il caos e l’imperfezione che creano fantasia, folklore e festa, ma anche il disordine che crea incapacità e totale disorganizzazione.
Mentre al di fuori sento esplodere qualche bombone, con i nisseni che ancora cantano e sostano nei pressi della tribuna coperta, nel settore sancataldese cominciano a entrare i primi tifosi. E con essi ecco nascere le prima scaramucce con la tribuna coperta, cosa che attesta fedelmente la genuinità e l’autenticità di questa giornata. Gli spalti vanno riempiendosi e alla fine si conteranno circa 4.000 spettatori. Badate bene: parliamo di due squadre che sinora occupano la zona retrocessione e di una sfida che si gioca in pieno orario lavorativo (i tentativi di spostare il calcio d’inizio alle 20:30 sono infatti naufragati) e – ripeto – per quanto il numero possa esser legato all’evento, parliamo comunque di una grandissima cornice. Soffermandoci solo sui verdiamaranto, forse in pochi pensavano che i 942 biglietti a loro disposizione sarebbero finiti in poco più di un giorno. Forse non lo pensava neanche la Questura di Caltanissetta, sebbene abbia fatto di tutto per ritardare e restringere la vendita dei tagliandi. I primi a entrare sono proprio i ragazzi del Commando Neuropatico, seguiti dopo alcuni minuti dagli ultras nisseni. Con le due fazioni ultras intente dapprima ad appendere gli striscioni e poi a lanciarsi i primi improperi, le schermaglie sono aperte e so bene che per novanta minuti potrò prendermi il lusso di isolarmi da molte situazioni spiacevoli che rappresentano lo stadio e il vivere ultras moderno, concentrandomi su ciò che si palesa davanti ai miei occhi e arriva alle mie orecchie. L’odore acre dei fumogeni, lo scoppio selvaggio di alcune bombe carta, fanno da preludio a tutto ciò, mentre io comincio a fare la spola da un settore all’altro.
I ventidue giocatori fanno capolino dagli spogliatoi, portandosi al centro del campo. Alla mia destra la Nord si esibisce dapprima in una densa e bellissima fumogenata giallo/rosso/bianca. Perdonatemi, ma quando vedo la pirotecnica ritorno bambino e, soprattutto, va detto che la riuscita di una fumogenata non è cosa per nulla ovvia: spesso il vento porta immediatamente via la coltre prodotta dai barattoli, altre volte, invece, la distinzione tra i colori non è tangibile. Oggi pomeriggio, anche grazie alla forte umidità, lo spettacolo nisseno riesce veramente bene, venendo seguito da un telone che raffigura San Michele – patrono della città – intento a sovrastare il Diavolo vestito di verdeamaranto. Spettacolo a cui i sancataldesi rispondono con uno striscione che lascia intendere la loro conoscenza del telone (“Puru u to santu parla assà… Michè, Catallu ti sgamà”), “nascondendo” poi parte del loro settore dietro a torce e fumogeni. Insomma, partita che inizia subito alla grande e mi costringe a fare gli straordinari con le mie due reflex più una videocamera. A rinfocolare gli spalti ci pensano anche i giocatori, che oggi si renderanno protagonisti di una gran bella partita, basti pensare che il risultato finale sarà 3-3. Un tourbillon di gol ed emozioni davvero perfetto per uno spettatore neutro, venuto qui per assistere innanzitutto allo spettacolo del tifo.
A proposito di tifo, cori e sostegno: a mio avviso quella di Caltanissetta è anche una sfida che ha messo di fronte due modi diversi di vivere la curva. Anni ’90/Inizio 2000 gli ospiti, senza troppi fronzoli nel vestire, con torce e fumogeni accesi alla rinfusa, cori tenuti a lungo e forse un pizzico di spontaneismo che apparteneva, per intenderci, più a quella generazione nata e cresciuta nello scorso ventennio. Più quadrati – sia nel vestire che nel posizionarsi – i padroni di casa, come detto bravi a formare la “macchia nera” richiesta nei giorni precedenti, ma ancor più bravi a renderla attiva e compatta. Parliamo di almeno ottocento persone che sono state magistralmente coordinate dai ragazzi con i megafoni in mano. E qui, entrando proprio nel merito delle prestazioni canore: gli ultras nisseni per quanto mi riguarda sono stati autori veramente di una gran bella performance. Oserei dire superiore anche rispetto al match con la Pro Favara, dove numericamente la curva aveva qualche presenza in più, ma da un punto di vista della compattezza fu leggermente inferiore a quella odierna. Tanta voce, tante mani e una bella quantità di torce a dar seguito alla fumogenata iniziale. Il salto di categoria, il derby e anche il “richiamo alle armi” fatti dagli ultras sono evidentemente serviti a serrare i ranghi dietro lo striscione che porta il nome della città e alla pezza Assenti Presenti, che da un paio di anni – dopo le diffide arrivate in seguito agli incidenti con gli ennesi – sostituisce quella dei Cani Sciolti. Io credo che per quanto si possano avere fedi differenti, avverse, simpatie, antipatie e idee radicate sui vari modelli di tifo, vada riconosciuto il merito a questi ragazzi. Anche in concomitanza di note vicende metropolitane, dove forse per qualcuno è diventato davvero l’ultimo dei pensieri quello di piegarsi la schiena per uno striscione o gettare tempo, soldi e fatica per la realizzazione di una coreografia. Discorso che chiaramente amplio a tutti quei giovani che oggi si gettano nella trincea degli stadi e vivono il loro ideale con anima e passione.
Volgendo l’attenzione verso il settore ospiti, sicuramente spicca – accanto allo striscione da trasferta del Commando Neuropatico – la lunga scritto San Cataldo senza provincia, provocatoriamente esposta nel centro della curva. E anche qui, rispetto al passato, è innegabile constatare un importante ricambio generazionale. Gli ultimi anni sono stati importanti, perché hanno permesso ai verdeamaranto di confrontarsi con le grandi piazze regionali e non solo. I sancataldesi hanno cominciato a viaggiare anche al di fuori dell’isola, confrontandosi con realtà sociali importanti e problematiche come quelle campane o calabresi. E questo non può che avergli fatto bene. Al contempo, parliamo pur sempre di un paese popolato da circa ventimila anime, dove – esattamente come nel capoluogo – l’emigrazione è spesso una necessità e lo stadio non è affatto scontato che sia un ritrovo aggregativo. In tal senso appare palese come le vecchie generazioni, dopo aver tirato su un gruppo riconosciuto negli anni in Sicilia, ma anche al di là dello Stretto, abbiano voluto gradualmente lasciare il timone a questa “nuova guardia”, cercando tuttavia di “inzuccargli” la concezione storica del Commando. Sì, è vero, oggi guardandoli si può vedere qualcuno più in fissa con la giacca o la polo scura, ma questo perché ultras è anche un fenomeno di costume. Tuttavia lo spirito originario non è stato scalfito e ciò ha permesso un legame quasi di sangue tra le varie generazioni, cosa che ritengo fondamentale sia per la durata di una tifoseria che – cosa ancora più importante – per riuscire a tramandare la sua essenza.
Anche su fronte ospite la prova canora è notevole e si dipana per tutti i novanta minuti, con l’esultanza finale per il 3-3 conquistato in extremis, su calcio di rigore, che è ovviamente un’esplosione collettiva e si colora con il classico, quanto retrò, lancio di fumogeni arancioni. Aggiungo, inoltre, che un derby non sarebbe tale senza striscioni. E chiaramente in questo pomeriggio siciliano, non mancano neanche questi. Dall’una e dall’altra parte si scambiano invettive su carta. Chi ironizza sulla storia, e chi sulle “troppe” amicizie dei dirimpettai. A tal proposito, presenti tra le fila sancataldesi i ragazzi di Serradifalco, piccolo centro di cinquemila abitanti che da qualche anno vanta un assiduo seguito organizzato. Connesso alla loro presenza viene esposto uno striscione in memoria di Calo, storico esponente scomparso da qualche anno e di cui oggi ricorreva l’anniversario della morte. Per qualche minuto anche da parte dei nisseni cessano le ostilità, con la Nord che si compatta nel coro “Onoriamo gli ultras scomparsi”. Quasi a sottolineare come, malgrado campanile, rivalità e diversità, dietro gli striscioni siamo tutti legati da un unico filo conduttore. E questo, se ci fermiamo a pensare, è proprio ciò che ci estrania dal mondo di tutti i giorni. Dalla quotidianità che è sempre meno ultras e sempre più grigia e avara di determinati valori.
Il derby del Tomaselli finisce dunque con uno spettacolare 3-3. Risultato che anche calcisticamente corona una giornata memorabile per due comunità che – scusate la demagogia – oggi hanno idealmente vinto e portato lustro non solo al movimento ultras siciliano, ma a quello nazionale. Dimostrando ancora una volta quanto in queste categorie e in questi posti – per alcuni remoti-, nascano e crescano ragazzi e uomini vogliosi di onorare quelle sei lettere che così tante generazioni hanno unito. Uno spot che, in realtà, coinvolgerebbe anche la Serie D e le sue cariche più alte, se solo queste ne fossero coscienti e una volta tanto cominciassero a dire la loro contro divieti, limitazioni e altre boiate da terzo mondo che stanno lentamente uccidendo qualsiasi forma di folklore e passione dietro a una sfera di cuoio, ormai da anni bucata e insulsa.
Mi soffermo per le ultime foto delle due squadre sotto le tifoserie, prima di cominciare lentamente a raccogliere l’attrezzatura. Peraltro ci tengo a sottolineare come, durante una breve ma intensa spruzzata di pioggia, nessuno dei presenti abbia pensato di interrompere il tifo e aprire gli ombrelli, aspetto che da odiatore seriale di questo oggetto sulle gradinate, non può che farmi piacere e portarmi a dare un giudizio ancor migliore alla sfida. La speranza resta quella di poter tornare da queste parti per la gara di ritorno. La speranza resta, dunque, quella che “qualcuno” si assuma nuovamente le sue responsabilità e voglia espletare, come oggi, egregiamente il suo lavoro. Penso questo mentre i tifosi di casa vengono trattenuti all’interno dell’impianto, per favorire il deflusso degli ospiti. Modus operandi che può non piacere ed essere sicuramente “fastidioso” per chi gioca tra le mura amiche, ma che – se ci pensate – riduce praticamente a zero qualsiasi pericolo. Perché volendo, repetita iuvant, il 99% delle partite di calcio possono giocarsi alla presenza di entrambe le tifoserie. Cosa che rimane l’unica normalità nella folle girandola di chiusure e proibizionismo. Ma oggi, come dicono quelli bravi – soprattutto quando vedono un solo tifoso in trasferta e si dimenticano di dire che altri mille sono rimasti a casa, vittime della discriminazione territoriale dell’Osservatorio – ha vinto il calcio e hanno vinto i tifosi. Succede poche volte, quindi non resta che godersela e raccontare ai posteri una giornata storica nel suo piccolo. Un piccolo, grande, mondo. A dire il vero!
Simone Meloni