“…era l’82 quando l’Italia era lì e Paolo Rossi fece gol al Brasil / in che maniera segnò, adesso dirti non so / vincemmo quel Mondiale con la pipa di Bearzot…” (da “Paese di goal” di Sergio Cammariere)
La vicenda di Paolo Rossi sembra uscita direttamente da un film hollywoodiano – tipo i bellissimi Cinderella Man e Rocky – e racconta in sostanza il riscatto sportivo e umano di un atleta amato dalle masse, finito in disgrazia e infine risorto sotto tutti i punti di vista. Certo, il dramma e il conseguente riscatto portati sul Grande Schermo sono altro rispetto alla vita reale, però le vicissitudini legate a Paolo Rossi sono per certi versi emblematiche e raccontano, a modo loro, quasi una fiaba.
Classe 1956, pratese, il nostro – dopo essere cresciuto calcisticamente in formazioni giovanili della sua zona – fu acquistato dalle giovanili della Juventus ed entrò nel Grande Calcio all’età di 18 anni esordendo in una gara di Coppa Italia disputata dai bianconeri a Cesena. Il suo “ingresso” nella massima serie nazionale avvenne in un Perugia-Como del novembre ’75, indossando le insegne lariane presso cui il ragazzo era giunto in prestito. Inizialmente – a dispetto di doti tecniche già evidenti agli esperti ed esegeti del Pallone – non ebbe molta fortuna (anche per via di infortuni che lo perseguitarono per tutta la carriera, caratteristica comune a molti calciatori) totalizzando in maglia comasca soltanto sei presenze senza mettere a segno alcuna marcatura. Ciò però è facilmente spiegabile per il fatto che, all’inizio della sua carriera, il futuro Campione del Mondo e super-cannoniere tra i più forti e prolifici di tutti i tempi, non giocava nel suo ruolo naturale di attaccante ma in quello di ala.
Centrale a tal proposito fu per la futura carriera del bomber pratese il passaggio al Lanerossi Vicenza (che visse in quegli anni uno dei periodi più esaltanti della propria storia in quanto a risultati e partecipazione popolare) dove sotto l’ala protettrice del tecnico bolognese Gibì Fabbri (considerato uno degli allenatori più innovativi del suo tempo, che adottava antesignani quanto avanzatissimi moduli di gioco) e del presidente del club berico, l’imprenditore vicentino Giuseppe Farina (che sarebbe diventato in seguito patron del Milan) e che ebbero per lui un affetto particolare, Paolo Rossi fu spostato di ruolo e divenne centravanti, iniziando una delle parabole sportive più belle ed esaltanti che si ricordino a memoria calcistica.
A Vicenza, presso cui Paolo era approdato in comproprietà con la Juventus, totalizzò nella sua prima stagione (76-77) 41 presenze e ben 23 reti, divenendo capocannoniere della Serie B e fu anche e soprattutto grazie ai suoi goal e alle sue prodezze se il club biancorosso vinse il campionato centrando il primo posto in classifica e approdando nella massima serie.
Nel suo primo anno in Serie A da attaccante del Lanerossi, stagione 77-78, il futuro Pablito visse un’annata magica, cominciata in sordina per il club veneto che, già dopo poche giornate del girone d’andata, cambiò decisamente passo, divenendo un vero e proprio rullo compressore e fu anche grazie ai fantastici goal del nostro (che si laureò ancora capocannoniere, stavolta però in Serie A e che grazie ai suoi 24 goal totali si guadagnò la maglia azzurra al Mundial di Argentina ’78) se il Lanerossi concluse il proprio torneo con uno sbalorditivo secondo posto in classifica, sfiorando uno Scudetto che avrebbe avuto davvero del clamoroso ed arrendendosi soltanto difronte allo strapotere della “solita” Juventus.
Nell’estate successiva, Paolo Rossi fu al centro di una clamorosa e sensazionale vicenda di mercato. Difatti il Lanerossi e la Juventus ne erano comproprietarie ed entrambi i club volevano riscattarlo per poter schierare quello che era diventato uno dei più forti attaccanti italiani dell’epoca, dal presidente Farina paragonato ad un’opera d’arte tra le più sublimi al mondo: La Gioconda! Non riuscendo le due società a venire a un accordo, finirono alle cosiddette “buste” in cui ognuno dei due club fece la sua proposta alla controparte, necessaria per riscattare l’altra metà del cartellino. Il patron vicentino Farina, di proposito (volendo tenere Rossi a Vicenza a tutti i costi) sparò una cifra da capogiro per quegli anni: oltre 2 miliardi e 600 milioni delle vecchie lire. Quest’operazione di mercato suscitò clamore e incredulità in tutta l’Italia calcistica, con titoloni e prime pagine dei giornali e con un popolo sportivo che si divise e gridò allo scandalo. Questa vicenda di circa quarant’anni fa fece davvero epoca ed ebbe addirittura ripercussioni politiche, tanto che l’allora presidente della FIGC, Franco Carraro (…sì, sempre lui: certi personaggi ci nascono con la camicia, regnando per decenni quasi per investitura divina) si dimise.
Rossi, dunque, rimase in biancorosso e durante la stagione successiva ’78-79, nei trentaduesimi di finale della vecchia Coppa UEFA, durante il match d’andata fuori casa coi cecoslovacchi del Dukla Praga, subì un grave infortunio al ginocchio che lo tenne lontano dai campi di gioco per diversi mesi. Nonostante tutto, al suo rientro, il buon Paolo siglò diverse reti totalizzando uno score finale di 15 marcature in campionato che però non bastarono al Lanerossi per mantenere la categoria e che retrocesse clamorosamente in Serie B (seppur soltanto a causa della peggior differenza reti col Bologna) dopo lo splendido campionato dell’anno precedente che l’aveva visto lottare per il Titolo.
Scesa la compagine vicentina tra i cadetti, il bomber venne ceduto in prestito per due anni al Perugia. Proprio il pesante ingaggio che indebitò fortemente il club umbro per portare a termine questa clamorosa operazione, indusse l’intraprendente presidente perugino D’Attoma ad adottare – primo caso in Italia e che avrebbe fatto, di lì a qualche anno, da apripista a tutti i club di tutte le serie – il cosiddetto “sponsor tecnico” (la fantomatica Ponte Sportswear – in realtà il vero marchio era il Pastificio Ponte – creata ad arte per aggirare il divieto federale che impediva le sponsorizzazioni e che dunque fu fatta passare per “fornitore tecnico”) che campeggiava sulla parte anteriore delle maglie da gioco all’altezza del petto. Ancora una volta – suo malgrado – il grande Paolo Rossi fece parlare di sé oltre che per i suoi goal anche per aneddoti come questo, quando in pratica s’innescò una delle più grandi rivoluzioni – quella dello sponsor sulle maglie – di tutto quel mondo che ruota intorno al Calcio.
Con la casacca del Grifo, Paolo Rossi disputò un solo torneo, stagione 79-80, chiuso dagli umbri a metà classifica, in cui tra campionato e Coppa UEFA totalizzò 14 reti… lontano dai suoi migliori exploit, ma comunque si piazzò in buona posizione nella classifica finale dei marcatori. Dopodiché, nella primavera del 1980 scoppiò in Italia lo scandalo del Calcioscommesse, ribattezzato Totonero, che vide coinvolti sia il Perugia che Rossi. Uno dei primi e più grossi scandali legati al nostro sport nazionale più seguito e amato, che fece letteralmente epoca, provocando un vero e proprio terremoto all’interno delle gerarchie pallonare e che vide la squalifica e la radiazione di tantissimi calciatori ed esponenti di spicco del mondo calciofilo.
La sentenza più clamorosa del Totonero fu la retrocessione in Serie B di due mostri sacri come Milan e Lazio. Tra i tanti calciatori più o meno coinvolti nella vicenda finì anche il nostro Paolo Rossi che sempre si professò innocente e che secondo molti fu vittima d’ingenuità e delle manovre di terzi che usarono il suo nome. Nonostante la sua accorata difesa, Pablito fu condannato a una squalifica per tre anni, poi ridotti a due. Quello del coinvolgimento di Rossi nel Calcioscommesse di quei primi Anni ’80 resta uno dei più grandi e irrisolti misteri del Calcio italiano e ancor’oggi – a tanti anni di distanza – non s’è mai potuta appurare in pieno la verità storica dei fatti.
La squalifica – che gli fece saltare giocoforza anche l’Europeo nostrano di Italia ’80 – fu incassata da Rossi come la più tremenda delle mazzate: si chiuse in sé stesso, inconsolabile e schifato dall’intero mondo del Calcio a cui pensò addirittura di dire addio lasciando l’Italia. Per fortuna non lo fece e durante il suo secondo anno lontano dai campi fu chiamato dal presidente Boniperti a indossare nuovamente la casacca della Juventus, come aveva fatto agli esordi della sua carriera. Nonostante la squalifica e il forzato fermo agonistico, il bomber toscano si allenò con convinzione e caparbietà per non perdere la forma fisica, ritrovando pian piano serenità e fiducia in sé stesso e nello sport che amava più della sua stessa vita e senza cui si sentiva orfano, svegliandosi al mattino senza gioia di vivere. In pratica – come ebbe modo di dire egli stesso – si sentì nuovamente un Uomo che finalmente poteva mettersi alle spalle il periodo più brutto e travagliato della propria esistenza sportiva e non solo, quando leggeva negli occhi della gente diffidenza e sospetto verso di lui, ch’era sempre stato il classico “bravo ragazzo” acqua e sapone. Quella velata avversione da parte della gente, a suo dire, fu la cosa che più gli fece male negli anni lontano dal manto verde.
La squalifica terminò nel mese di aprile della stagione 81-82, dando a Rossi la possibilità di tornare finalmente a calcare i campi di gioco, disputando le ultime tre partite di campionato, siglando anche un goal ed avendo modo di festeggiare a pieno titolo e da protagonista il ventesimo Scudetto, quello della seconda “stella”, con la Juventus.
Le sorprese non erano finite e Rossi fu convocato dal tecnico Bearzot – che riponeva in lui, dopo il buon Mondiale argentino di quattro anni prima in cui aveva anche siglato tre reti, immensa fiducia e con cui aveva un rapporto di stima pressoché illimitato – per l’imminente Mondiale di Spagna ’82. Naturalmente la cosa destò scalpore, facendo storcere il naso ad addetti ai lavori, giornalisti e tifosi che considerarono (e non del tutto a torto dal loro punto di vista) un grandissimo azzardo portare in Nazionale e per il torneo più importante del mondo un calciatore che veniva in pratica da due anni di inattività e che aveva nelle gambe soltanto scampoli di campionato. Inoltre la scelta di portare Rossi al Mondiale costò il “posto” all’altrettanto grandissimo Roberto Pruzzo che in quegli anni stava facendo sfracelli con la sua Roma – vincendo le ultime due edizioni della classifica dei cannonieri – e che si voleva in azzurro a furor di popolo.
Con la prima fase a gironi del Mondiale (che vide gli azzurri passare al turno successivo soltanto in virtù di tre pareggi contro squadre considerate assai modeste) le polemiche non si placarono, anzi infuriarono sempre più, coinvolgendo il tecnico Bearzot, tutta la squadra e naturalmente Rossi che divenne un po’ il capro espiatorio dell’esasperazione degli amanti del nostro Calcio che si sentivano frustrati da una Nazionale mai tanto abulica e incapace d’entusiasmare i tanti tifosi che la seguirono nella non lontana Spagna e di tutti gli altri che in patria non perdevano una partita in TV, come avviene puntualmente ad ogni Mondiale ed Europeo. Le critiche furono aspre e si fecero sempre più basse e volgari, scendendo e scadendo nel personale ed attaccandosi a cose perlopiù inesistenti o inventate che miravano con cattiveria a colpire gli uomini prima che i calciatori.
Una delle tante bufale che iniziarono a girare – sapientemente e subdolamente messe in giro da qualche giornalista più buontempone e spregiudicato degli altri – riguardò proprio Rossi che fu al centro di un’illazione secondo cui avrebbe intrattenuto, proprio in quel periodo, rapporti di tipo omosessuale col suo compagno di club e di Nazionale, Antonio Cabrini. Per ovviare ad una situazione che stava diventando sempre più ingestibile, il buon Bearzot chiuse la squadra nel silenzio stampa, rinnovando la propria fiducia verso gli atleti che aveva voluto con sé in quell’avventura mondiale. E fu proprio Bearzot a rincuorare e dare fiducia e maglia da titolare a Rossi che davvero pareva incapace di eseguire anche le più semplici trame di gioco e che era probabilmente vittima d’un vero e proprio blocco psicologico che s’ingigantiva sempre più col trascorrere dei minuti (di gioco) e che vedeva il bomber pratese non più in grado di realizzare una marcatura. Un Rossi irriconoscibile, smarrito, l’ombra del grande fuoriclasse ch’era stato negli anni precedenti e che aveva fatto entusiasmare le platee italiane coi suoi goal e le sue prodezze. Quell’inizio di Mondiale sembrò davvero il canto del cigno per Paolo Rossi.
Ad incupire ancor più un cielo già di per sé assai fosco e che vedeva oscuri nuvoloni sull’orizzonte dei colori italiani, ci si mise anche la sorte. Per quell’edizione dei Campionati del Mondo, infatti, dopo i classici gironi eliminatori della prima fase, non si passò direttamente agli scontri diretti degli ottavi di finale, come avviene sempre, ma furono creati degli ulteriori raggruppamenti, dei mini-gironi a tre squadre di cui passava in semifinale soltanto la prima classificata. L’Italia pescò, nel suo mini-girone, Argentina e Brasile, considerate di gran lunga tra le Nazionali più forti e più accreditate per la vittoria della Coppa del Mondo. La cosa fu accolta come un’autentica iattura e si disse infatti che l’Italia fosse già spacciata: infatti restava soltanto da “decidere” chi, tra Brasile e Argentina, avrebbe vinto il girone: era una questione a due, l’Italia non c’entrava e non poteva entrarci in alcun modo.
Ma il bello del Calcio è proprio la sua imprevedibilità e il fatto che ogni pronostico può essere sovvertito. Le tre partite furono giocate nel vecchio e romantico Estadio de Sarriá che era ubicato nell’omonimo quartiere di Barcellona, in quella ch’è detta “zona alta” della città, non lontano dal più celebre Camp Nou. Ultimato nel 1923 e infine demolito nel ’97 (per lasciar posto a edifici d’urbanistica residenziale) fu a lungo la casa dell’Espanyol, il secondo club cittadino, dopo il più blasonato Barça, della popolosa metropoli catalana. A cavallo dei mesi di giugno e luglio, in quell’indimenticabile quanto meravigliosa estate iberica del 1982, l’Italia calcistica scrisse due delle pagine più belle e gloriose della propria storia, battendo al termine di due formidabili e infuocate partite, dapprima l’Albiceleste per 2 reti a 1 (con le marcature dei suoi migliori difensori: Tardelli e Cabrini) ed asfaltando (come si direbbe oggi) la Seleção più forte di tutti i tempi per 3 reti a 2 con tripletta d’un redivivo Paolo Rossi.
Già nel match contro l’Argentina di sei giorni prima, Rossi aveva giocato una buona partita dando grossi segni di ripresa (come del resto tutta la squadra). Ma fu in quel caldo pomeriggio catalano del 5 luglio che la Storia cambiò per sempre. In un’intervista rilasciata tanti anni dopo, Pablito ha raccontato che il primo goal realizzato in quella sfida col Brasile dopo appena 5 minuti, fu la più grande emozione della sua vita e fu vissuto come un’autentica liberazione. Da lì si sbloccò, realizzando quella tripletta entrata, insieme a lui, di diritto nella leggenda del Calcio. Tre goal contro la squadra considerata da tutti come la più forte del mondo e forse di tutti i tempi (e che nel terzo incontro del girone aveva avuto la meglio sulla rivale di sempre, l’Argentina). Tre marcature che catapultarono il gracile attaccante italiano nell’olimpo dei più grandi football-player di sempre. Quel giorno le parti s’invertirono e l’Italia guidata dal suo ritrovato condottiero e grazie alle sue imprevedibili puntate in avanti fece la parte del Brasile, con un gioco fresco e spumeggiante, dando spettacolo. Una partita che ha profondamente segnato un’epoca; un match che valse come una finale e dopo cui tutti capirono che l’Italia avrebbe avuto buone possibilità di trionfare e alzare la più ambita delle Coppe al cielo… e così fu. Quella partita, oltre a proiettare la nostra Nazionale nel pantheon delle più grandi squadre di sempre, valse a Pablito Rossi una buona fetta del mitico Pallone d’Oro che gli fu assegnato quell’anno per le sue performance mondiali (e che, prima di lui, soltanto un altro italiano aveva avuto l’onore di conquistare: Gianni Rivera; e, dopo, soltanto: Roberto Baggio e Fabio Cannavaro).
A dispetto d’una carriera lunga, travagliata ma densa di soddisfazioni – parlo in merito a squadre di club – che lo portò a vincere con la maglia della Juventus quasi tutti i trofei possibili (due Scudetti, una Coppa Italia, una Coppa dei Campioni e una Coppa delle Coppe) il nome di Paolo Rossi rimarrà per sempre e inevitabilmente legato a quel Mundial spagnolo dell’82, alle 6 reti messe a segno nelle ultime tre partite – dopo la tripletta ai verdeoro, Pablito rifilò due “pallette” alla Polonia in semifinale e realizzò la prima delle tre marcature della vittoriosa finale contro la Germania Ovest – che lo portarono a vincere anche la classifica dei cannonieri di quell’indimenticata e indimenticabile edizione dei Campionati del Mondo. In particolare è rimasta nella memoria collettiva quella tripletta inflitta al Brasile, forse proprio perché così inattesa e sorprendente, da un calciatore dai più considerato ormai finito e che in novanta minuti cambiò radicalmente la propria vita e la propria storia, oltre a quella (sportiva) d’un’intera nazione, entrando di prepotenza nel gotha assoluto del Calcio. È uno sport così il football è va preso e inteso per quello che è: un palo, una traversa, un tiro d’un soffio a lato e rimani un perdente; un goal al momento giusto, aiutato da una buona dose di fortuna e sapienza tattica e diventi un Dio in Terra. Cosa sarebbe stato del buon nome di Paolo Rossi senza quei tre goal al Brasile?!… per fortuna – citando Christoph Waltz/Hans Landa del film Inglourious Basterds del maestro Tarantino – a volte la Storia si ferma a guardarti e ti tende la mano.
Negli anni seguenti e a tutt’oggi la faccia da eterno bravo ragazzo di Paolo Rossi – un nome tanto comune quanto evocativo – è rimasta immediatamente associabile a quella partita, a quell’Italia-Brasile di oltre 35 anni fa, che sembra come il buon vino che più invecchia più diventa buono. Sono passati così tanti anni da quel 5 luglio 1982 eppure il ricordo di quella sfida, degli uomini che la combatterono e dell’eterno Pablito restano indelebili e marchiate a fuoco nelle menti e nei cuori di coloro che ebbero la fortuna di viverle sul posto o attraverso la televisione, immagini che ormai fanno parte dell’immaginario collettivo. E il buon Paolo continua ad essere fermato e riconosciuto per la strada e inevitabilmente, tra un selfie e un autografo col Campione del Mondo e capocannoniere di Spagna ’82, il discorso e le domande dei tanti fan vanno inevitabilmente a finire a quella partita contro i carioca e a quelle tre leggendarie reti.
Addirittura anche in Brasile si ricordano ancora di Paolo Rossi, soprannominato Carrasco do Brasil (ovvero: il Boia del Brasile) e quella partita persa contro gli azzurri – a fronte d’una Seleção considerata come la più forte di sempre – è ricordata come Tragédia do Sarriá (dal nome dello stadio dove, come visto, fu giocata la sfida) ed è uno degli avvenimenti sportivi più nefasti per la storia calcistica verdeoro e va ad inserirsi tra il cosiddetto Maracanazo (la disfatta nel Mundial di Brasile ’50 perso, a dispetto d’ogni pronostico, contro l’Uruguay davanti ai 200.000 dello stadio Maracanã di Rio de Janeiro) e il più recente Mineirazo (il tremendo tracollo per 7-1 patito in semifinale a Belo Horizonte nello stadio Mineirão contro la Germania nell’ultima edizione del Campionato del Mondo di Brasile 2014).
Nell’89 Pablito si recò in Brasile con una rappresentanza italiana per disputare la cosiddetta Coppa Pelé, ch’era in pratica una sorta di Campionato del Mondo over 35 a cui prendevano parte calciatori non più in attività. Secondo il suo racconto, Rossi si recò nel Paese sudamericano con una mentalità da turista e si ritrovò a giocare in stadi gremiti e con ambienti assai ostili, addirittura da impedirgli d’avvicinarsi alla linea laterale del campo tante erano le intemperanze del pubblico contro di lui a cui, evidentemente, non era stata perdonata quella tremenda e micidiale tripletta! Un altro “simpatico” aneddoto racconta di quando, sempre in Brasile, mentre viaggiava in taxi – non appena fu riconosciuto dal tassista che immediatamente accostò e fermò il mezzo – fu fatto scendere senza tanti complimenti!… Tutto ciò per dire di quanto questo calciatore abbia rappresentato e rappresenti ancor’oggi in termini di “mito” e popolarità non solo nel nostro Paese.
Dopo la sbornia Mundial, Rossi disputò altre tre ottime stagioni nella Juventus, vincendo coi bianconeri la Coppa Italia 82-83, lo Scudetto e la Coppa delle Coppe 83-84 e la Coppa dei Campioni 84-85 (rimasta celebre per la tragica serata dell’Heysel) e collezionando rispettivamente 18, 15 e 10 reti. Pian piano il suo utilizzo si fece più rado e anche il rapporto col presidente Boniperti si deteriorò, pare per via di una pretesa di aumento dell’ingaggio – già di per sé molto alto – da parte del calciatore; aumento che il presidente bianconero aveva rifiutato sdegnato non digerendo mai del tutto la cosa.
Nella stagione 85-86, Pablito passò al Milan, a fronte d’un favoloso ingaggio, fortemente voluto dal patron rossonero Farina che, come visto, lo conosceva molto bene essendo già stato suo presidente ai tempi del Lanerossi Vicenza. Insieme all’inglese Hateley e a Virdis, Rossi avrebbe dovuto costituire un formidabile trio d’attacco al servizio del barone Nils Liedholm… ma le cose non andarono come previsto e Pablito, oltre a patire un infortunio che gli fece saltare un terzo di torneo, andò in rete – in campionato – soltanto per due misere volte.
Intanto anche in Nazionale Rossi continuò ad essere convocato nel corso degli anni dal tecnico Bearzot che nutriva nei suoi confronti e in quelli di tanti vincitori del Mundial spagnolo una forte riconoscenza che probabilmente non fu buona consigliera, in quanto gli anni e gli acciacchi si fecero sentire anche per la vittoriosa truppa “spagnola”: prima per la qualificazione alla fase finale dell’Europeo che si disputò in Francia nel 1984 – che l’Italia clamorosamente ciccò – e in cui Pablito segnò un solo goal; ed infine – oltre a disputare tante amichevoli in azzurro – fu convocato e fece parte della rosa che volò in Centramerica per il Mondiale di Messico ’86 ma non giocò un solo minuto di quel torneo.
Nella stagione 86-87, il bomber ex Campione del Mondo andò a concludere la propria carriera in Provincia, a Verona (seppur parliamo del Verona degli Anni ’80 e dunque della formidabile corazzata scaligera capace di vincere il Tricolore nella memorabile stagione 84-85). Con le casacche gialloblu riuscì a fare un tantino meglio della stagione precedente al Milan, totalizzando 7 reti (4 in campionato). Ma era già un Paolo Rossi davvero stanco e che aveva dato e detto già tutto quanto era in suo potere. A fine stagione diede l’addio al Calcio giocato all’età di 31 anni. A ben vedere un’età in cui molti calciatori riescono ancora a dare tanto… ma evidentemente il fuoco che aveva animato il grande Pablito negli anni d’oro della sua carriera e soprattutto in quell’irripetibile e grandioso Mondiale spagnolo, lo avevano totalmente consumato. Finiva così, sul campo, una delle più brillanti carriere calcistiche italiane; ma soltanto sul campo, perché il nome, la popolarità e il mito di Paolo Rossi avrebbero continuato ad essere celebrati negli anni successivi e ancora oggi – a così tanto tempo di distanza – le sue gesta sportive sono tuttora in grado di far parlare tutti e versare fiumi d’inchiostro ad addetti ai lavori e semplici appassionati.
Personalmente ho sempre avuto una grandissima ammirazione per Paolo Rossi e mi considero fortunato nel poter parlare di lui ricordando a tutti le sue gesta, soprattutto ai più giovani che per ragioni anagrafiche non hanno potuto “gustare” questo campione. Al di là d’un calciatore ch’è stato sì fortissimo – dotato d’un intelligente opportunismo, d’una sgusciante rapidità e d’una letale furbizia in area di rigore non comuni – e che ha fatto sempre la differenza, trovo che la caratteristica saliente di questo atleta sia stata quella di diventare un simbolo, un’icona di quegli anni quando il Calcio era ancora uno sport a misura d’uomo e faceva appassionare e parlare tutti, anche coloro che proprio non lo potevano soffrire. Il merito principale di Paolo Rossi, della sua figura, del suo “personaggio” (passatemi il termine) è stato proprio questo: l’aver avvicinato la gente al Calcio che, filtrato attraverso le sue gesta e i suoi goal, diveniva vero e proprio fenomeno sociale ad uso delle masse, come e più di quanto fosse mai avvenuto in precedenza.
Vedo Paolo Rossi come una figura eroica, catartica e ridondante, per certi versi retorica, che nel suo volto di eterno ragazzo pane e nutella, nelle sue movenze nervose e guizzanti, nella sua magrezza quasi emaciata che si faceva beffe del classico stereotipo del calciatore macho e muscoloso, celebrava ogni momento – in campo come sugli schermi TV o sulle pagine di giornali e rotocalchi – tutta la componente più sublime e trasognata del gioco del Calcio, quella che fa innamorare per sempre i bambini e li accompagna per tutta la vita. Un “eroe moderno”, Paolo Rossi, legato a doppio filo alla parte più leggera e spensierata degli Anni ’80 di cui è divenuto uno dei “simboli” più conosciuti e riconoscibili nella sua assoluta unicità e caratterizzazione.
E quel Mondiale del 1982, con l’Italia che mise tutti in fila e celebrò la sua più bella Coppa del Mondo, è rimasto addosso e dentro a tutti quelli della mia generazione che eravamo bambini in quei magici pomeriggi di luglio di 35 anni fa e che – anche grazie a Pablito – siamo rimasti un po’ tali, non riuscendo mai del tutto ad andar via da quel Mondiale, rimasto intrecciato nei nostri più bei ricordi, impastato coi sogni d’infanzia. L’inizio del nuovo anno scolastico era lontano, l’estate col suo carico di libertà e spensieratezza regnava sovrana e il sole a perpendicolo ci spaccava la testa, ma noi infaticabili continuavamo a giocare a pallone nei cortili sotto casa e tra i palazzi imitando i nostri eroi e a seguire in TV – nelle case insieme coi nostri genitori mai così belli e perfetti – le immagini d’una Nazionale italiana che sorprendentemente e incredibilmente continuava ad andare avanti a dispetto di tutto e tutti.
E quando battemmo l’Argentina, noi bambini uscimmo in strada e non riuscimmo a guardarci negli occhi, quasi vergognandoci di tanta grandezza dei nostri colori e dei nostri atleti, sentendoci forse inadeguati di fronte all’improvviso e imprevisto realizzarsi dei nostri più rosei desideri covati fino al giorno prima. E infine quando il piccolo Davide/Paolo Rossi uccise con tre fiondate il gigante Golia/Brasile fu come se il tempo, il mondo e tutta la nostra piccola vita si fossero fermate all’improvviso, per imprimere a fuoco e per sempre qual momento nel fondo della nostra anima innocente. E tutti ci sentimmo dei piccoli Paolo Rossi e Paolo Rossi in quel momento era il Calcio, era l’Italia ed era la nostra bandiera, il nostro eroe, la nostra vita e tutti i nostri sogni.
Se penso alle immagini più belle della mia infanzia, sono tutte riconducibili al Calcio. E se penso agli Anni ’80 non posso non pensare a Paolo Rossi. Per me gli Anni ’80 hanno la faccia di Paolo Rossi.
Luca “Baffo” Gigli.
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LE PUNTATE PRECEDENTI
Aesernia-Pro Cisterna 1984: l’epica della gara e la comunità del tifo;
Vorrei morire di domenica: ritratto di Socrates;
Serafino, personaggio del tifo e del calcio che fu;
Juary e la danza della bandierina;
La battaglia di Highbury;
Un angelo caduto in volo. La luminosa parabola di Armando Picchi;