Partiamo dal presupposto che giudicare da remoto rimane sempre un esercizio sterile quanto puerile. Proseguiamo dicendo che, dopo gli ultimi due anni, si può affermare che lo stato di salute del movimento ultras italiano – malgrado una repressione folle, cieca e mai arginata – è tutt’altro che pessimo o, come qualcuno continua a ripetere, prossimo alla morte. Scrivere un pezzo del genere non è facile, soprattutto perché di fondo non c’è molto da commentare oltre a ciò che tutta Italia (e a quanto pare non solo) ha già visto. Non penso ci siano parti da prendere o giudizi marziali sul valore delle fazioni in campo, almeno non da parte di chi era neutro spettatore. Né credo che dalla serata di Padova si possa avere un’idea sminuente verso una delle due “contendenti”, che comunque in questi anni ha sempre dimostrato il proprio valore. A fari spenti. Senza far troppo rumore. Ma con la dignità di chi ha speso tempo ed energie per formare uno zoccolo duro e renderlo assiduo.
Oltre cinquant’anni di tifo organizzato italiano, amicizie trasversali, rivalità che nascono per loro conseguenza e confronto tra i vari tessuti sociali che rappresentano il nostro Stivale sulle gradinate, erano fino a qualche anno fa quasi all’ordine del giorno e forse facevano meno clamore. Grazie anche all’assenza della grancassa mediatica rappresentata dai social, dove ognuno – anche chi non ha mai messo piede in uno stadio – può dire la sua e elargire attestati di conigli ed eroi.
È altresì chiaro come chi ha acceso la miccia, lo abbia fatto sulla scorta di un ottimo periodo e di una nuova generazione di ultras, che è stata brava, audace e sufficientemente “ignorante” nel ritornare in auge dopo i noti fatti del 2007, che avrebbero ucciso e seppellito per sempre molte piazze. Una realtà che ha la bava alla bocca e la rabbia di chi conosce il proprio potenziale. Spiace – sebbene se ne possa capire la logica “il nemico del mio amico è mio nemico” – constatare, invece, come al di fuori dei confini nazionali forse si siano usate parole troppo forti sulla vicenda, etichettando in modo sbrigativo e non commisurato la faccenda e un’intera piazza, anzi due. C’è poi tutta quella fascia, masochisticamente e incredibilmente appartenente anche al mondo ultras, che si “diverte” a riprendere tutto in stile CCTV e poi diffondere immediatamente in rete, sia mai fosse sfuggito qualcosa all’occhio del Grande Fratello: questi, come sovente sottolineato, sono i migliori “collaborazionisti” per chi vuol distruggere l’universo curvaiolo.
Anche la lingua italiana, così vasta e varia nella sua gamma terminologica, non è di ausilio per continuare senza cadere nell’ostica trappola di una possibile accusa di apologia della violenza. Perché in serate come questa è uno degli elementi base del nostro mondo a emergere e, volente o nolente, se esso mancasse verrebbero meno anche tutte quelle forme “retoriche” e verbali di confronto dentro e fuori gli stadi. Per questo, nessuno me ne voglia, ma trovo assai improbabile – per non dire impossibile – segar via tale aspetto dalla militanza. Soprattutto perché verranno sempre nuove generazioni. Con la loro esuberanza. Con la loro voglia di fare. Con il loro sobillato desiderio di migliorare ciò che è stato fatto da chi è venuto prima. E da chi ha fatto, anche gloriosamente, il suo tempo. E oggi, tuttavia, non può pretendere la castrazione del mondo che ha costruito e vissuto.
Nella società perfetta e supina che il grande schermo dipinge e richiede a spron battuto, si fa finta di non conoscere la dialettica da stadio, che invece è talmente penetrata nella quotidianità da esser spesso traslata nel parlare comune e nel modo di affrontare battaglie di piazza (pensateci, ormai avviene il contrario: è la piazza che prende spunto dallo stadio e non viceversa, come in origine). Magari non sarà più specchio della controcultura/sottocultura ultras (perché questa, a tratti, si è trasformata rispetto alla sua natura iniziale) ma riesce ancora ad aggregare generazioni, forse bisognose di sentirsi folk devil. Forse bisognose di incanalare l’innato senso di ribellione della gioventù.
Di certo le immagini dell’Euganeo ci raccontano di un Paese totalmente incapace di gestire un qualsivoglia evento sportivo con un rischio leggermente maggiore alla media di una partita di Terza Categoria, tra scapoli e ammogliati qualunque. Ma a causa del clamore suscitato dalle stesse presso i principali media, nessuno si chiede come ciò sia possibile in uno stadio i cui punti deboli non solo sono noti ma, in un passato non troppo distante, avevano già creato grattacapi (molto simili). Soprattutto nessuno lo chiede a chi di dovere, gli stessi che nell’immediato post partita hanno tenuto a precisare che ormai l’ordine pubblico all’interno degli stadi è gestito dagli steward. Sì, quegli omini in giacchetta fosforescente, che sovente faticano anche a indicare un ingresso o una biglietteria. E siccome ormai viviamo in un posto che ha totalmente dimenticato il concetto di “responsabilità oggettiva”, qualcuno probabilmente si è sfregato le mani pensando a quali interdizioni e divieti infliggere alle tifoserie.
La gara di ritorno, a porte chiuse, è sembrata talmente ovvia che nessuno ha osato alzare la voce per protestare. Il Cibali senza pubblico, per molti, è giusto e sacrosanto. Anzi, “colpa dei teppisti”. La questione che pongo però è molto semplice e senza nessun retroterra giustificativo per determinati comportamenti: se esistono decine di leggi create ad hoc per lo stadio, con le quali chi si è preso la responsabilità di agire verrà punito al cento percento, perché un impianto pubblico dev’essere chiuso a tutti (ospiti compresi, che per me dovrebbero viaggiare sempre, a prescindere dal rischio della gara)? Se riuscissimo per un secondo a parlare in modo serio, abbandonando il chiacchiericcio da bar applicato a decisioni istituzionali, forse si potrebbe aprire un dibattito su quanto il calcio sia devastato e svuotato del suo fascino e del suo interesse, non di certo o quanto meno non solo dagli ultras, che però vengono comodi a chi gli punta il dito contro da vent’anni così da mettere la polvere sotto al tappeto.
Di fronte al solito refrain della follia ultrà ci possiamo fare beffe, pensando alla piccola borghesia che si scandalizza. Al cospetto del confronto che conosciamo ognuno trae e ha tratto le sue conclusioni. Di certo il sussulto di vita è importante e non merita i giudizi e i commenti di nessuno. Se non da parte di chi c’era e di chi è stato coinvolto. La storia la scrive chi partecipa alle battaglia e non chi le guarda dal divano.
Simone Meloni