Cori e colori, sfottò e bandiere, spalti gremiti e invasioni oceaniche, folklore e insulti: in sintesi, l’archetipo del campanilismo. C’è stato un tempo in cui Roma contro Napoli non è stata soltanto la sfida tra due grandi squadre del Centro-Sud, ma un autentico Derby lungo l’autostrada del Sole.
Duecentosessantadue i chilometri, metro più metro meno, che separano i due cuori pulsanti delle rispettivi tifoserie: lo Stadio Olimpico e il San Paolo. Una rivalità che è stata anche gemellaggio, senza che sia intenzione di chi scrive quella di invocare un ritorno al passato, vuoi per sana opposizione ad una città così vicina e così simile in molti aspetti caratteriali, vuoi a causa degli eventi che hanno contraddistinto gli ultimi anni, portandosi dietro una scia di allarmismi, odio vomitato sui social network e una politica mediatica tendente più alla spettacolarizzazione che alla distensione delle criticità. Come il soffiare sul fuoco che divampa per ammirarne le fiamme, per poi rendersi conto di aver lasciato bruciare l’ambiente circostante.
Roma contro Napoli ha rappresentato e tuttora in parte rappresenta la possibilità di provare a sradicare lo strapotere settentrionale nel calcio, ma senza la degna cornice questo spettacolo sta lasciando dietro di sé, stagione dopo stagione, proprio quelle caratteristiche che, dal lontano aprile del 1928 hanno contraddistinto gli incontri fra i due sodalizi.
Chi l’ha vissuto di persona potrà raccontare con un pizzico di nostalgia impastata dalla delusione che cosa abbia rappresentato, gli altri potranno chiudere gli occhi e immaginare uno stadio stracolmo di bandiere giallorosse e un settore ospiti sovraffollato e canticchiare fra sé e sé quei motivetti di una tradizione quasi secolare che oggigiorno, sotto una scure invisibile, sembran esser diventati qualcosa di intollerabile e addirittura pericoloso per una società tesa ad apparire diversa da ciò che è. Nel bene e nel male.
“Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti”.
Chi meglio di un funambolo della parola come Carlo Emilio Gadda può venir in aiuto di un giovane scrittore nato a Roma da padre napoletano alle prese con un argomento più grande di lui, noumenico nella sua complessità e nelle sue mille sfaccettature. Difatti, quella andata in scena sabato 4 marzo alle ore 15:00 presso lo Stadio Olimpico, non è altro che l’ennesima pagina triste di un sistema-calcio tanto malato quanto capace di sopravvivere poggiandosi su medicine momentaneamente efficaci, ma che col lungo andare renderanno visibili le loro controindicazioni.
Divieto di accesso all’impianto capitolino ai tifosi napoletani residenti in Campania – una forma legittimata di discriminazione territoriale ben più grave di qualche sfottò seppur, per alcuni, di cattivo gusto – qualche centinaio di sostenitori degli uomini di Sarri provenienti dai molteplici Club sparsi lungo lo Stivale, oltre duemila agenti delle forze dell’ordine impegnati nel presidiare la zona e circa settecento steward all’interno dello stadio, “Roma-Napoli, allarme rosso” e “L’Olimpico sarà blindato”.
Numeri e parole dal sapore tragicomico che, unite all’ormai travagliata protesta del cuore pulsante del tifo giallorosso contro una bieca repressione, dovrebbero far e farci riflettere sulla strada ormai largamente intrapresa dal nostro amato pallone, sempre più in picchiata verso un baratro fatto di teatri muti, seggiolini vuoti, tasche piene e cuori privi di passione. E pensare che la partita avrebbe anche fornito tutte le condizioni per una giornata da cuori forti e impavidi, un 1-2 finale da cardiopalma con la formazione di Sarri a dominare la gara per lunghi tratti, andando in doppio vantaggio con un Mertens ispirato come mai prima di questa stagione, prima di crollare psico-fisicamente negli ultimi dieci minuti al cospetto di una Roma stanca ma gagliarda, testaccina.
La rete di Strootman a pochi minuti dal recupero e un forcing finale fatto di pali, imprecazioni, mani rivolte al cielo e un miracolo dell’estremo difensore partenopeo capace di rispedire all’interno dello sterno l’urlo di gioia dei romanisti. Sarebbe stato un bellissimo spettacolo in campo racchiuso in una splendida cornice. Ma così, purtroppo, non è e forse non sarà per molto tempo.
“Saranno in molti i napoletani che si porteranno a Roma per sostenere la squadra del cuore con il loro caloroso incitamento. Sarebbero stati in moltissimi sei i dirigenti, a simiglanza di quanto fu praticato negli anni precedenti, si fossero preoccupati in tempo utile di allestire uno o più treni speciali. Comunque, siatene certi, non mancherà al Testaccio la nota vivace del tradizionale sventolio di fazzoletti azzurri”
La prima volta in cui gli azzurri si imposero con questo risultato sul campo della Roma risale all’aprile del 1934, in un periodo sicuramente difficile per molti aspetti, in cui lo sport aveva ancora la funzione di strumento di regime per allietare le folle. Il Napoli dell’incallito fumatore mister Garbutt, precedentemente primo allenatore della storia giallorossa a cui fu regalata una pipa da alcuni ammiratori accorsi alla Stazione Termini, arrivò a Campo Testaccio con ben cinque punti di vantaggio, riuscendo ad imporsi nonostante l’iniziale vantaggio dei capitolini firmato da Scopelli grazie alle parate del “Giaguaro” Cavanna e alle reti Vojak e Rossetti.
Sono passati più di ottant’anni e in un’altra occasione gli ospiti riuscirono a piegare le resistenze dei padroni di casa con questo risultato, eppure riguardando il filmato dell’Istituto Luce di quella sfida tutto, tornando al presente, sembra esser così freddo e dall’atmosfera asettica.
Roma-Napoli non è più quel Derby del Sole capace di trascinare due città dentro un unico impianto, impossibile forse ridare a questo evento la dimensione che merita, come forse il rintracciare un unico colpevole. Di certo gli strumenti utilizzati nel corso degli anni per “riportare le famiglie allo stadio” e “ridare al calcio il suo pubblico” si continuano a dimostrare non solo inefficaci, ma addirittura dagli esiti diametralmente opposti rispetto alle finalità preposte. E ogni tanto, in mezzo a questo marasma di voci e penne, sarebbe il caso di sottolineare quanto le colpe siano da condividere. Perché errare sarà pure umano, ma dare la colpa ad un altro lo è ancora di più.
Testo di Gianvittorio De Gennaro.
Foto di Giuseppe Scialla.