Al minuto 85′ dal megafono si invitano i ragazzi della Sud a mostrare orgogliosamente le proprie sciarpe, col fine ultimo di rendere il settore un tappeto giallorosso per gli ultimi cinque giri d’orologio di questo match europeo che la Roma sta conducendo 1-0. La cosa non farebbe neanche notizia se non fossimo in un’epoca in cui il classico folklore delle curve italiane, sembra a volte persino ripudiato dalle stesse, che sovente tendono a uniformarsi dietro al colore scuro e snobbare alcuni dei marchi di fabbrica che per decenni ci hanno fatto guardare con rispetto e ammirazione da tutto il continente. La cosiddetta “sciarpata” è una di quelle usanze nate quasi in contemporanea con il movimento ultras e ancora oggi una delle massime dimostrazioni di ostentazione dei propri colori. Certo, qualcuno – giustamente – mi dirà che ci sono sciarpe e sciarpe. Quelle dei gruppi (curate, con frasi battagliere o commemorative, spesso introvabili e altre volte sin troppo commerciali), quelle delle bancarelle (trasandate ma a volte ugualmente affascinanti, soprattutto se comprate prima che anche i “bancarellari” tentassero di diventare dei sofisti) e quelle fatte dalle società, che personalmente metto all’ultimo posto per un mero fattore di “mentalità” (passatemela!), non avendo mai avuto piacere nell’acquistare materiale ufficiale (venduto, peraltro, a prezzi folli).

Questo strumento, che a molti può sembrare banale e scontato, è in realtà il feticcio massimo della fede. Pensate a quanti di noi conservano la stessa sciarpa di quando erano bambini: sgualcita, consumata, scolorita e bucata dalle scintille delle torce. Ma dal valore inestimabile proprio per questo. Averla tra le mani, alzarla al cielo e non portarla con superficialità, è “un dovere di tutti”. Proprio come “tifare”. Esattamente come quella frase che vi trovavamo incisa tanti anni fa, su quelle vendute dai famosi “abusivi” davanti a tutti gli stadi d’Italia. Che oggi qualcuno se ne ricordi e voglia ridare dignità e importanza a questo strumento credo sia importante e significativo, soprattutto per tutti quei ragazzi che in quest’epoca non ne hanno più la stessa considerazione. Nell’industria calcio che step dopo step tende a cancellare anche la più banale delle consuetudini dei tifosi, bisognerebbe sempre aggrapparsi a queste piccole cose in grado di far innamorare nuove generazioni e non renderle asetticamente nerd in grado solo ed esclusivamente di elaborare dati su giocatori o affidarsi ad algoritmi per vivere una partita. Magari un derby, una semifinale europea o uno spareggio per salire di categoria o centrare la salvezza. Momenti che devono far rima con passione, irrazionalità e folle desiderio di essere quel qualcosa in più. In questo caso quel muro in grado di far primeggiare i propri colori e mostrarli ai giocatori in campo o ai tifosi dirimpettai.

In una serata, in fondo, “anonima” come questa, con un Olimpico dal buon colpo d’occhio ma senza una tifoseria avversaria da fronteggiare e una Roma francamente poco stimolante anche per il calciofilo più accanito, ciò che può dare la spinta per cantare e ben figurare è l’orgoglio. E in questo devo dire che la Sud affronta i novanta minuti davvero alla perfezione, continuando sulla buona strada che sembra esser stata presa da inizio stagione. Il tentativo di ripristinare il ritmo “originale” con cui veniva eseguito il coro sulle note di Sailing (quello reso celebre dai tifosi del Millwall e dal loro “No one like us, we don’t care, we are Millwall, super Millwall, we are Millwall from The Den” e che sulle sponde del Tevere fu rimodulato in un significativo “Dai rioni, dai quartieri, siam venuti, fino a qua, siamo gli ultras della Roma, onoriamo la città”) è un eccellente modo per rallentare complessivamente la velocità, spesso eccessiva, con cui si eseguono la maggior parte dei cori (cattiva usanza che, non ho mai capito perché, ha preso piede in tutto il Paese) e tornare a quella specie di “preghiera” attraverso cui ogni tifoso segue la propria personale “liturgia”. Una funzione dove non ci sono chiese, sacerdoti o divinità, ma soltanto la propria fede nell’identità e nei colori. Ecco perché serve sempre una guida e una voce che di fondo sappia prendere per mano la massa e portarla laddove, inconsciamente, vuole anche lei: sostegno assiduo e intenso. Perché quando si è nel bel mezzo di un coro che sale, di una distesa di mani che si alzano per scandire al meglio uno slogan, anche il più mansueto dei presenti si fomenta e diventa iperattivo se trascinato dall’ambiente. Non a caso uno degli stendardi più veri ed eloquenti era quel “Fomenta il vicino”, aperto per novanta minuti verso la curva e non verso il campo.

Come accennato, in campo sono i capitolini a imporsi per 1-0 grazie al gol siglato da Dovbyk su calcio di rigore. Nulla da segnalare nel settore ospiti, dove prenderanno posto solo alcune decine di tifosi “semplici”, probabilmente ucraini residenti in Italia. Da segnalare, a inizio partita, l’esposizione di uno striscione in ricordo di Cristian e Stefano, figlio e padre di cui ricorrevano i dieci anni dalla tragica scomparsa, avvenuta in un incidente stradale verificatosi dopo la gara di Champions tra la Roma e il Bayern Monaco, il 21 ottobre 2014.

Simone Meloni