C’è una dato di fatto, alquanto incontrovertibile: il Derby della Capitale negli ultimi anni è tornato a essere un appuntamento “caldo” e interessante nel panorama curvaiolo nazionale. I suoi anni peggiori (se parliamo di tifo, coreografie e spettacolo sugli spalti), quelli subito dopo la mannaia repressiva del post-Raciti, sembrano esser passati e sebbene sia pressoché impossibile rinverdire completamente i fasti degli anni novanta/inizio duemila (anche solo per un mero discorso di cambiamenti sociali), è forse l’unica stracittadina che riesce a tenere attivi diversi elementi: passione, turbolenza, sana cattiveria, ruvidezza e politicamente scorretto. Non me ne voglia nessuno, sia chiaro. Forse l’unica stracittadina che minimamente si può paragonare è quella genovese, dove però – per il diverso contesto sociale e anche la diversa grandezza della città – forse la “cattiveria” a volte viene un po’ meno (il che non vuol dire che sia amore). Si potrebbe partire proprio dall’ultimo atto di questa prima domenica di marzo: Gianluca Mancini, marcatore della decisiva rete dell’1-0 per la Roma, che corre sotto la Curva Sud con il bandierone raffigurante un ratto su campo biancoceleste. Un gesto non conciliabile con i tempi e soprattutto la Serie A contemporanea, incentrata sull’ipocrita predica del bon-ton e del rispetto dell’avversario. Un gesto che, invece, rappresenta appieno l’eterna rivalità Roma/Lazio. E questo, ovviamente, lo dico a prescindere dal tifo. Non a caso quando Di Canio, nel 2004, volle bissare l’esultanza del 1989 sotto la Curva Sud – per quanto da tifoso posso aver “rosicato” – da cultore di un certo tipo di calcio, di un certo tipo di tifo e, soprattutto, da chi è cresciuto con certi aspetti del derby, lo compresi e lo apprezzai. Servì a rinfocolare la rivalità, ad accendere ancor più la disputa. A forgiare lo sfottò. Ben vengano allora gesti fuori dal cerimoniale e dal copione preimpostato. Ben vengano esultanze irrispettose e bandiere sventolate. Gli unici a scandalizzarsi, paradossalmente, sono quelli che queste cose le commentano da remoto o nella comoda postazione riscaldata. Ai tifosi, soprattutto a quelli romani, non solo non interessa, ma di fondo… piace! Anche perché sono modi per pensare nuove “vendette” e far gridare in maniera ancor più adirata queste quattro galline che vogliono trasformare uno sport come il calcio, in una cerimonia d’apertura del Ballo delle Debuttanti a Vienna!
Due esempi che ovviamente valgono per tutte le altre situazioni simili accadute attorno a questa partita. L’unica cosa che posso rimproverare a Mancini è l’essersi successivamente scusato: pur potendo immaginare le pressioni avute a causa del perbenismo di cui sopra, sarebbe stato meglio rifiutare e andare per la propria strada. Chi vede da fuori queste dinamiche forse può non capirle, per chi Roma/Lazio lo vive tutti i giorni, invece, non solo è normalissimo, ma anche stimolante. Oggi a me, domani a te. In altri lidi si procede alla modifica dei cori se troppo offensivi, si invitano i giocatori a scusarsi con i dirimpettai e, in generale, si cerca di seguire una linea non belligerante da anni. Roma è diversa. Roma è ancora città tribale sotto questo punto di vista. Roma è perdente in campo ma vera sugli spalti. E questo è il punto a suo favore. L’aspetto che la fa spiccare. Chi vive questa stracittadina ha la fortuna (o la sfortuna) di saggiarne quotidianamente tutti i sapori e gli umori, cosa che per forza di cose – almeno per una giornata – sembra farti totalmente astrarre dal resto del calcio nazionale, soprattutto di quello delle big o da quello promulgato e promosso da fini scribacchini istituzionali. Gli stessi che magari fanno la morale per uno striscione, per un’esultanza, salvo poi venir risucchiati successivamente in qualche inchiesta o qualche scandalo. Lo so, si intuisce, che ai mastri pallonari di questo Paese il Derby della Capitale dà fastidio. Vuoi mettere? Non ci sono le geometrie calcistiche perfette, armoniose e afrodisiache della stracittadina milanese, né lo spettacolo televisivo di quelle londinesi. Spesso le partite finiscono con punteggi risicati, al netto di novanta minuti brutti e anti-estetici. Non spendibili presso i nerd che contano statistiche da pubblicare su qualche sito fantacalcistico. Anzi, volendo proprio dirla tutta, da dopo il Covid le due squadre in campo sembrano aver aumentato il livello di acredine e ormai puntualmente divampano focolai di rissa, cartellini e di calcio giocato se ne vede pochissimo. Poi ci sono quei beceri tifosi pronti a insultarsi, farsi striscioni e, di tanto in tanto, attingersi con qualche fumogeno. È probabile che i padroni del vapore vogliano solo vederne la fine. La conclusione di questa cafona messinscena della mediocrità, questo insulto al “calcio della gente” (cit.). Io mi limito a dire: se dobbiamo essere una città provinciale nella quotidianità (e purtroppo lo siamo), allora tanto vale continuare a esserlo nel pallone, dove questa discriminante ci rende diversi e lontani da talune logiche. Ma soprattutto minimamente veri e non ridotti a prodotto televisivo o utile ai social per fare visualizzazioni con scenografie e cori creati ad hoc!
Venendo al derby in questione: con il fischio d’inizio stabilito alle 18 di sabato, il piano per la mobilità inizia presto, finendo – ovviamente – per paralizzare buona parte dell’area circostante lo stadio. Mi fa sempre piacere eludere un divieto o una prescrizione stupida, figuriamoci se poi mi viene imposta da chi non conosce minimamente le strade di Roma. Arrivando all’Olimpico in bici, per la prima volta in tanti anni mi viene “teoricamente” impedito di accedere sul Lungotevere per poi posare la bicicletta nel solito posto. Peccato che quella strada la faccia centinaia di volte l’anno per puro piacere e così mi sia sufficiente imboccare una parte della ciclabile che costeggia la banchina del Tevere e poi risalire in superficie dove il blocco della polizia è ormai ben lontano. Ho sempre compassione per chi organizza la mobilità a Roma in queste occasioni: da una parte spingono affinché uno lasci la macchina, utilizzi i mezzi o la bicicletta. Dall’altra fanno di tutto affinché uno rinunci proprio a uscire di casa per non sottostare a idiote e cervellotiche scelte. Comunque fortunatamente siamo in Italia: fatta la legge, trovato l’inganno! Uscito da questa impasse, dunque, posso finalmente avviarmi verso gli ingressi, dove l’afflusso devo dire che scorre tutto sommato velocemente e, quando manca poco meno di un’ora al fischio d’inizio, sono sugli spalti.
I primi cori cominciano a volare da una parte all’altra, con le due curve che nel frattempo stanno lavorando per esporre le rispettive coreografie. Purtroppo quella che potrebbe già essere un’atmosfera incandescente, viene leggermente sopita dalle solite urla gracchianti dello speaker e dalla musica irrorata dagli altoparlanti. A più riprese Sud e Nord provano a scambiarsi invettive, ma quando in sottofondo ci sono i berci di Achille Lauro, Annalisa, Blanco e laidezze simili, l’impresa risulta assai ardua. Fortunatamente a ridosso del fischio d’inizio l’attenzione viene catturata dalle scenografie, che lentamente prendono corpo. La prima a scendere è quella biancoceleste, con i cartoncini che vanno a comporre la scritta a tutto settore W la Lazio, un telone raffigurante un giocatore d’epoca al centro e decine di stendardi ironici, pungenti nei confronti dei cugini e di appartenenza nella parte inferiore. In realtà quest’ultima sembra richiamare una delle più celebri e ben riuscite scenografie degli Irriducibili, quella del derby 1992/1993, con l’intera curva imbandita di due aste. A mio modo di vedere un bello spettacolo, sia per il riferimento storico che per la realizzazione di per sé. Apprezzando le cose semplici e non troppo elaborate, non posso che averne un buon giudizio dunque. Su sponda romanista, invece, si attende qualche minuto per favorire l’esposizione di uno striscione che lascia intendere come qualcuno in Sud già sapesse cosa la Nord avesse organizzato. Dopodiché migliaia di cartoncini si alzano tra Curva e Distinti, andando a formare da una parte la Lupa Capitolina e dall’altro l’acronimo ASR. Il tutto ultimato dallo striscione centrale Sei tu l’unica mia sposa, sei tu l’unico mio amor. Senza dubbio una delle migliori scenografie realizzate dai giallorossi negli ultimi quindici anni. Oltre a essere l’ennesimo, importante, messaggio nei confronti della società circa stemma e, soprattutto, acronimo, che continua a non esser presente costantemente sulle tenute da gioco. Anche se oggi, un po’ come successo nel derby di ritorno di due anni fa, la società ha pensato di far indossare una maglia realizzata solo per la stracittadina (e annunciata via social da Marco Delvecchio, storico uomo derby) in cui suddetto acronimo è regolarmente presente sotto la Lupa. Osservazione personale: bello, ma non sufficiente. La tradizione deve tornare per tutte e trentotto le partite di campionato sulla divisa della Roma. Meritevole di menzione anche la coreografia realizzata in Tevere, dove prende forma la figura di Agostino Di Bartolomei – di cui due giorni dopo sarebbe stato il compleanno – nella celebre posa in cui è intento a calciare. Posa per l’occasione specchiata – infatti sembra calci di sinistro, mentre lo storico Capitano era destro – per far partire il tiro verso la Nord.
La gara inizia e le due tifoserie cominciano il confronto canoro. Rispetto al derby di Coppa disputato in gennaio, senza dubbio viene fatto meno sfoggio di pirotecnica ma considerati gli episodi avvenuti in diretta nazionale, la cosa era abbastanza scontata. Tuttavia non mancano colore, bandiere e canti che i lanciacori romanisti e laziali cercano di far espandere per tutti i settori. Nella prima frazione il confronto del tifo è pressoché pari, mentre nella ripresa, con la Roma che lentamente si porta verso il successo, la Nord cala sensibilmente. Comunque la cornice resta di tutto rispetto e i siparietti tra persone normali poste vicino ai divisori, i numerosi striscioni da una parte e dall’altra e la vitalità con cui le due tifoserie si beccano, evidenzia quanto detto in fase iniziale: la stracittadina romana è viva e vegeta, in ripresa rispetto al passato e finalmente di nuovo “scorbutica” e scorretta dentro e fuori dal campo. Come detto finisce con la vittoria della Roma e la festa sotto la Sud per un successo che in questa sfida mancava da due anni. Clima opposto su fronte laziale, dove la squadra viene contestata – ovviamente non solo per la sconfitta, ma per la pessima serie di risultati da cui è reduce – e invitata a sudare la maglia. Mentre i tifosi romani tornano a casa con umori e pensieri contrastanti, la macchina del fango sul derby già è partita e sta muovendo con solerzia i suoi passi. Forse io sono troppo ortodosso e sicuramente ragiono in maniera poco elastica e per nulla corretta politicamente… ma davvero il giorno che qualcuno, su ambo i lati, si farà problemi a esternare i proprio sentimenti – in modo anche sguaiato – in occasione di questa partita forse sarà arrivato il momento di non venirci più. Il calcio senza forti sentimenti, senza la rabbia e senza la gioia illogica e improvvisa, cosa sarebbe? Chi avrebbe ancora interesse nel seguirlo irrazionalmente? Fortunatamente il tentativo di educare i tifosi romani per ora è andato a vuoto. Magari chi desidera ci potrà riprovare. Nella speranza che non sia più fortunato!
Simone Meloni