Lei ha sempre unito dove tutto è diviso.
Sin dalla nascita qualcuno decide per noi a che religione aderire, imbevendoci come frollini in un’acquasantiera, bagnandoci tre volte il capo oppure recidendo una piccola parte del nostro corpo per annunciare al mondo che sì, ora facciamo parte della loro comunità.
Cresciamo divisi in classi sin dall’asilo, separandoci spontaneamente con l’avanzare degli anni fra i primi della fila e quelli che poltriscono all’ultimo banco con l’aria assonnata e l’innato istinto di nascondersi dietro le teste altrui per evitare un’interrogazione.
E ancora divisioni su divisioni, buoni e cattivi, guardie e ladri, percorsi di studi e di vita diametralmente diversi, e quartieri agiati e case popolari, la “Roma bene” e la periferia, le classi sociali, il ricco e il povero.
Ma c’è stato un posto in questo mondo frammentato, chiuso in compartimenti stagni, in cui poteva avvenire l’inconcepibile: la congiunzione di binari separati, fisicamente dal contatto impossibile. C’è stato un tempo, neanche troppo lontano, in cui Gianvittorio, ragazzo della ridente e snob Balduina cresciuto in un ambiente profondamente ovattato, poteva convivere fianco a fianco con Marco, figlio del Rione cresciuto a pane e strada.
Si potevano abbracciare, eppur non si conoscevano neanche; potevano piangere insieme, imprecare quel Dio che poi è uguale per tutti e una frazione di secondo dopo pregarlo affinché quella sfera finisse in rete. Soffrivano insieme, gioivano insieme, piangevano uno sulla spalla dell’altro.
Roma-Sampdoria m’ha ricordato una serata d’aprile di alcuni anni fa, ho pensato fosse arrivato il momento di raccontarla, dopo aver seppellito quei ricordi, rintanandoli con la forza bruta della psiche nei meandri dell’anima onde evitare di vederli riaffiorare; e con loro quei momenti da tifoso che, nel bene o nel male, hanno svolto un ruolo fondamentale nella mia crescita. Di uomo prima che di sostenitore acceso della squadra della mia città.
Il Sole scendeva lentamente per dare l’ultima carezza all’amata Terra, prima di nascondersi per qualche ora facendo posto alla fioca luce della sera.
I vicoli e le strade di Roma ormai deserti, le serrande dei negozi tirate dietro alle spalle con netto anticipo: tutti erano impegnati in altro, con la testa altrove e il cuore che batteva all’impazzata. La zona intorno allo stadio pullulava di bandiere, colori, cori; le birre scendevano giù a fiumi a mo’ di un temporale settembrino capace di allagare completamente uno stadio dalla presunte cinque stelle; macchine in sesta fila, motorini sui marciapiedi come una muraglia infrangibile per i malcapitati avventori.
La Città Eterna si preparava così ad affrontare una sfida decisiva come poche nell’ultimo decennio, la possibilità concreta di assicurarsi una fetta importante di quella torta dolcissima che chiamano Scudetto. Dalla mattina si capiva senza problema alcuno che sarebbe stata una giornata di attesa, con l’orologio al polso da controllare ogni istante sperando in una improvvisa e inspiegabile accelerazione del tempo stesso, in un balzo nell’iperspazio come giovani piloti del Millennium Falcon.
Batteva incessantemente il cuore pulsante della mia città, la Roma di mister Claudio Ranieri era pronta ad ospitare una Sampdoria lanciata nella difficile sfida per un posto in Coppa dei Campioni, con l’obiettivo di aggiungere un nuovo tassello ad un mosaico di pregevole fattura. Sarebbero scesi in campo in undici, al limite in quattordici, ma in realtà c’erano decine di migliaia di anime pronte alla battaglia sportiva: chi sul divano, chi al pub, i più fortunati con un abbonamento o un biglietto in tasca. Titolo d’accesso per una serata in Paradiso. Ma come fan presto certi luoghi a trasformarsi in gironi infernali.
L’aria frizzantina, viva e pungente accompagnava il mio arrivo allo Stadio Olimpico, attendendo con animo trepidante l’ingresso in Curva Sud con gli amici di sempre, prima di esser circondato da perfetti sconosciuti che, nel giro di pochi secondi, sarebbero diventati fratelli, compagni di una notte sbagliata per gente molto speciale.
Sventolavano fiere le bandierette all’altezza di Ponte Duca d’Aosta, qualcuno accendeva un fumogeno nei pressi dell’Obelisco per colorare ulteriormente quella notte stellata, altri combattevano la comprensibile ansia prepartita ingurgitando pinte alla velocità del suono: antidoto eccellente per le pene d’amore.
Perché questa è una storia d’amore se qualcuno non l’ha capita; quell’amore non corrisposto che ti sputa in faccia ma tu, Iddio solo sa perché, continui imperterrito ad amare perché solo così puoi fare. “L’amore ha l’amore come solo argomento“, scrisse De André, e allora cosa c’è di più sincero di un innamorato tradito pronto a perdonare in un batter di ciglia.
Raggiunto il tornello con estrema facilità dopo aver saltato file e controlli zigzagando come il miglior Alberto Tomba in mezzo ad una folla oceanica, mi apprestavo velocemente a salire quei gradoni di quattro in quattro, come se da un momento all’altro potessi finire preda di qualcuno pronto a trascinarmi fuori. Con il fiato mozzato dall’affanno, le birre, il caffè Borghetti caldo e le troppe sigarette frantumate, raggiunsi il mio posto. Ce l’avevo ai tempi, era proprio mio, solo mio, unico proprietario. Eppure sull’abbonamento penso ci fosse scritto altro, ma così andavano le cose e nessuno era pronto a lamentarsi, anzi. Per non perderlo mai di vista avevo scritto il mio nome con un pennarello nero indelebile, mentre altri lo avevano abbellito appiccicando qua e là figurine Panini di giocatori improbabili o di avversari a testa in giù, come si usa sin da bambini (le pagine della Lazio per i romanisti, e viceversa).
Lo stadio quel giorno era più bello del solito, vestito a festa in tutto il suo splendore come la più bella delle ragazze in una serata di gala, come la donna amata risvegliandosi al mattino mentre soavemente sposta la testa dal petto dell’innamorato, abbandonando quel cuscino da cui è trapassato abbastanza amore da riempire un cuore umano.
Il prepartita scivolò via in una lentezza inaudita, perché quando deve passare beh, signori, non passa proprio mai il tempo.
Alte si levavano le braccia e forti come non mai i cori a cui prendevano parte tutti, dall’avvocato dei Parioli all’operaio di Mostacciano. Ricordo ben poco del durante, forse sono riuscito veramente a cancellare parte delle mie memorie o forse, come qualcuno teorizza, certi vizi infantili hanno ripercussioni piuttosto spiritose col passare degli anni.
Ci portò in vantaggio capitan Totti, servito splendidamente da Vucinic, abile il 10 ad infilare un monumentale Storari con un preciso sinistro rasoterra dritto dritto all’angolino. Riaffiorano sfocati i frame di quella marea che incitava senza sosta i propri beniamini ad un raddoppio che avrebbe forse scritto la parola “fine” sulla contesa.
Una autentica bolgia culminata, e questo non potevo dimenticarmelo, in un signore poche file sotto di me, svenuto letteralmente a terra mentre imprecava contro l’arbitro a causa di un rigore non concesso a nostro favore.
Quel raddoppio, purtroppo per noi, per fortuna per loro (il bello e il brutto del calcio, ça va sans dire), non arrivò mai.
Anzi, scesero prepotenti e senza pietà milioni di lacrime.
Il 25 aprile del 2010 ero un poco più che diciottenne, ragazzone pronto a duellare con il mondo, senza freni alcuni e una lingua sempre pronta allo scontro verbale, e non.
Ma quel giorno piansi, piansi a dirotto come un bambino a cui è stato tolto il ciuccio.
Con le punte dei piedi appoggiate sul seggiolino mi chiusi a riccio, cercando di porre una barriera fra me e il mondo circostante, per isolarmi in un dolore che, sportivamente parlando, non avevo mai provato in vita mia. Era probabilmente finito un sogno, il portafortuna che per un’intera stagione mi aveva accompagnato in casa e in trasferta non c’era più, perduto al momento della rete dell’uno a zero a causa di un balzo che mi aveva portato a scendere fino alla bocca della Sud, franando addosso a dozzine di persone sorridenti, in estasi. Nessuno si lamentava di questa orda di barbari e pazzi, né le famiglie erano in pericolo perché il codice stabiliva che donne, anziani e bambini fossero protetti, prima di passare ad un’esultanza selvaggia, folle, in una parola sola: umana.
Le pacche sulle spalle da parte di amici e sconosciuti, fratelli di sangue e ignoti che vivevano il mio stesso stato d’animo con le facce attonite e gli occhi di chi ha toccato con mano qualcosa scivolato via lontano, non alleviarono la mia tristezza. Eppure, in un batter d’occhio qualcosa penetrò all’interno portandomi ad esclamare con tutta la rabbia che avevo in corpo: “Chi viene a Parma? Mica è finita qua, non succede eh, ma se succede“.
Non è successo, lo sapete tutti, alcuni ridono ancora dalle vette dell’altare di chi non perde mai, altri mi staranno maledicendo per aver fatto riaffiorare questi ricordi, altri come me ieri avranno pensato a quella partita osservando il tabellone dell’Olimpico fermo su: Roma 1 Sampdoria 2.
Non ci possono essere rivincite, né personalmente le chiedo.
Non l’è stato il veder retrocedere i blucerchiati davanti ai miei occhi, né per Francesco Totti il realizzare la rete di un insperato quanto folle 3-2 in rimonta, dopo aver aperto le marcature in quella lontana domenica d’aprile, prima di veder franare i sogni di gloria in casa propria, al cospetto della propria gente.
Quello che manca veramente è quel sentirsi uniti anche se siamo lontani, mentre tutto intorno è diviso e cercano di frammentare ancor di più quel barlume di sana aggregazione che lo stadio ha rappresentato. Più che barriere, multe senza alcuna logica e un impianto che, basta guardare alcune foto di domenica pomeriggio, viene spacciato per qualcosa che non è; regna una divisione nella fratellanza, la scomparsa di quella diversità romanista che accomunava il patrizio e il plebeo, portando il primo a battersi per i diritti dell’altro e viceversa.
“Dimmi cos’è che ci fa sentire amici anche se non ci conosciamo“, la canticchiamo a memoria eppure molti sembrano averla dimenticata troppo in fretta. Forse perché molti non vedranno mai comparire alla porta di casa, di prima mattina, il postino pronto a consegnare una contravvenzione di 167 €.
Forse perché i diciottomila di ieri, Tribuna stampa e Monte Mario comprese, pur avendo infranto una regola ingiusta, non subiranno (giustamente) lo stesso tipo di trattamento; forse perché chi domenica sostava in balaustra per ripararsi dalla grandine, non subirà (giustamente, bene ribadirlo onde evitare fraintendimenti) una diffida e tutte le beghe che essa comporta, penalmente e lavorativamente parlando.
C’è stato un tempo in cui si piangeva insieme.
Un tempo e un luogo dove un’ora abbondante di sospensione avrebbe generato un’altrettanta ora abbondante di cori, bandiere issate sotto al diluvio, fumogeni annacquati e vestiti zuppi.
Ma volti felici, sorridenti come bambini sotto l’albero di Natale.
A Roma manca questo e la colpa non è di una barriera di plexiglass, no. Non possono averla questa soddisfazione, nossignori.
La colpa purtroppo è di noi tutti, perché non siamo stati in grado di far capire al nostro vicino quanto sia importante trovarlo lì ogni domenica, sabato, mercoledì o giovedì.
E che un suo problema, è un nostro problema; come le sue lacrime e le sue gioie.
Ché in fondo la Roma altro non è che i suoi tifosi tutti, anche se ora verrebbe da dire altro.
Adesso siamo soli, noi.
Gianvittorio De Gennaro