Una serata in famiglia è la migliore occasione per poter recuperare del tempo insieme, rivedersi dopo lungo tempo e passare qualche ora in spensieratezza.
Troppo spesso infatti ci perdiamo dietro all’incalzante ritmo della nostra routine quotidiana e così, approfittando dell’odiatissima sosta per le nazionali, ho deciso di recarmi allo Stadio Olimpico di Roma per assistere alla sfida amichevole contro la formazione argentina del San Lorenzo de Almagro – club di cui è tifoso sfegatato il numero uno della Chiesa cattolica e vescovo della Capitale, Jorge Mario Bergoglio.
Un evento – quest’ultimo – legato al Giubileo Straordinario della Misericordia, rinominato appunto “Festa della famiglia”, con incasso interamente devoluto in beneficenza per cercar di fornire ulteriori aiuti alle vittime del drammatico terremoto che ha messo in ginocchio diversi comuni del Centro Italia.
Nonostante l’ultimo fine settimana utile per qualche ora di relax su un lettino con la faccia rivolta verso il sole e la mente che freme per tornare indietro ad un bucolico locus amoenus chiamato da tutti “ferie”, decido di anticipare il mio rientro dall’affollato lungomare romano. Armato del tagliando di Curva Sud, prontamente acquistato da un caro amico, arrivo a Piazza Mancini a bordo del mio scooter intorno alle ore 17. Un’ora di anticipo per la canonica birra pre-partita, una chiacchierata con i vecchi amici di sempre e la possibilità di socializzare con i tanti tifosi avversari, in maggioranza provenienti dal Vecchio Continente, anche se non son mancati temerari ed intrepidi viaggiatori che hanno attraversato l’Oceano per sostenere i colori rossoblu.
“Si todos los caminos conducen a Roma, el nuestro conduce a Boedo“, la maglietta sfoggiata dalla tifoseria argentina in occasione di quello che, ai loro occhi, risulta essere un vero e proprio pellegrinaggio in Terra Santa. Peccato non aver potuto mostrare loro la bellezza del tempio del tifo, ma andiamo con ordine.
Il caldo e l’umidità delle giornate agostane di Roma scandiscono gli istanti precedenti la partita, insieme all’immancabile Borghetti caldo venduto da ambulanti alla presenza volutamente ignara delle forze dell’ordine – circondati inoltre da venditori di materiale contraffatto, senza ricevute fiscali e pronti ad elargire i loro prodotti a dozzine di famiglie accorse per assistere alle gesta di Totti e compagni. Non che i fautori della safety debbano lanciarsi contro questi come se dalla loro soppressione dipendesse il destino dell’Urbe, ma l’accanimento esclusivo nei confronti dei frequentatori del settore popolare, al netto di taluni distinguo, dovrebbe quanto meno far riflettere.
In compagnia di due amici mi dirigo verso l’Obelisco, un tempo teatro delle prime manifestazioni spontanee di tifo, oggigiorno luogo di autoscatti di dubbio gusto. La lunga fila all’ingresso, bistecca succulenta per un leone ricoperto di tritolo (dizionario, voce “sicurezza”), viene prontamente scavalcata entrando lateralmente a mo’ della miglior scivolata del nostro numero 16. Ci troviamo così al cospetto del primo steward di giornata, pronto a controllare con santa solerzia l’effettiva validità dei nostri documenti. Superata la prima colonna d’Ercole, mi avvicino con fare rassegnato verso il cordone di Polizia, attendendo così i minuziosi controlli imposti da un momento di psicosi collettiva e panico sociale. Incredulo, passando in mezzo alle forze dell’ordine senza problemi alcuni, mi maledico per non aver portato con me almeno qualche artifizio pirotecnico per render meno grigio il mio pomeriggio, o una fiaschetta colma di liquore al caffè o anche un semplice mazzo di carte. E badate bene, ero letteralmente accerchiato da agenti muniti di metal-detector tascabili; ovviamente chiusi in una fondina mentre gli stessi parlavano del più e del meno, commentando qua e là le generose forme di alcune sostenitrici argentine. Ci sono bombe e bombe, amico lettore.
Arrivato al vaglio del secondo steward, anch’egli pronto a confermare la validità del controllo eseguito pochi istanti prima dal collega (la sagra dell’ovvio, ndA), decido di indirizzare i miei passi verso le forze dell’ordine presenti nel piazzale antistante il tornello. “Magari qualcuno mi ferma un secondo, sennò di quali misure di sicurezza stanno parlando?“. Niente, nulla, zero assoluto. Testa china sullo smartphone e discussione animata sull’imminente partita della Nazionale italiana di calcio: l’ineccepibile atteggiamento di questa piccola fazione di dipendenti statali.
Superato con facilità il tornello, fianco a fianco con un amico venuto dall’estero sprovvisto del regolare tagliando di Curva Sud lato Ovest (Berlin calling) mi appresto a salire quei gradoni che, un decennio abbondante or sono, provocarono nel mio cuore un innamoramento spontaneo, folle, inspiegabilmente irrazionale. Il manto verde si mostra in tutta la sua bellezza davanti ai miei occhi di bambino, prima di ripiombare in un incubo che, da oltre un anno, tormenta l’anima nelle sue segrete più oscure.
Tutto intorno a me è diverso, le persone (non molte, eppure era una partita di beneficenza, eppur i tagliandi costavano 5 euro, eppure la Curva Sud ormai è stata svuotata dei suoi “banditi”) sono sedute, i bambini corrono felici rincorrendo un palloncino, le bottigliette d’acqua hanno il tappo, i seggiolini sono sempre sporchi ma nessuno si lamenta di sedere sopra il guano di piccione, non ci sono bandiere, men che meno fumogeni. Mi appoggio sulla balaustra dell’ingresso principale sorseggiando il mio caffè, dopo aver richiesto lo scontrino per constatare come alcune leggi non siano rispettate, come ai vecchi tempi, nonostante le tante belle parole spese dai fautori della “safety” per riportare la legalità allo stadio. La loro legalità.
Non ci sono ultrà, forse qualche bambino geneticamente predisposto a diventarlo in futuro, ma non succederà, non è più tempo per loro. Si avvicina lestamente a me un altro steward il quale, tronfio nella sua scintillante uniforme, mi intima di sedermi. Alla mia destra immancabile arriva la risposta di un compagno di sventure: “Io non mi siedo, in Curva non ci si siede“. Arriva il coordinatore che, con estrema educazione, ci spiega la pericolosità di questa nostra scelta, lanciando anche una non tanto velata accusa nei confronti di chi ha trasformato quel luogo in un teatro. “Mi dispiace, vorrei dirvi di stare in piedi, di cantare, urlare e fare casino. Ma non si può più fare. Dovreste rientrare tutti e far di questo posto una santabarbara. Sono dalla vostra parte, ma purtroppo devo chiedervi di sedervi, oppure di salire su in cima dove nessuno vi dirà nulla”.
Armati di pericolosissime birre leggermente alcoliche, pasto preferito di ultrà e banditi, mi dirigo in buona compagnia verso lidi mai scoperti da chi ha vissuto anni di stadio vedendo a malapena il pallone ogni dieci/quindici minuti, in quegli angoli di luce fra una torcia accesa e quella bandiera perennemente issata, rivolta verso il cielo in tutta la sua fierezza. Ci piaceva così, ma vaglielo a spiegare.
La partita scorre lentamente fra un applauso a Totti, un coro per Totti, un’ovazione per Totti e un saluto a Totti. Scende in campo l’Associazione Sportiva Totti. Non che non ami il mio capitano, ci mancherebbe altro, ma qualcuno lì dentro ha mai sentito parlare di “Roma”?
In Tribuna Tevere, nel frattempo, diverse centinaia di sostenitori del San Lorenzo colorano la grigia atmosfera con canti e balli di pregevole fattura, lanciando ripetutamente sul terreno di gioco gli immancabili rotoli di carta, come da tradizione. Sarebbe stato bello andar con loro, penso con animo mogio fra me e me, ma oggi la missione era una: vedere con i miei occhi l’ingente afflusso di famiglie allo stadio. Come volevasi dimostrare, nonostante i proclami delle Istituzioni, queste non hanno affatto rimpiazzato gli esuli curvaroli, vuoi per il caro-biglietti (che in questo frangente conta meno), vuoi perché anche i bambini vogliono andare allo stadio per divertirsi. E lo Stadio Olimpico non è più un luogo di svago, almeno agli occhi di chi preferisce una distesa verde in cui correre ad una fredda prigione dell’anima in cui rimanere seduti e in silenzio.
L’intervallo regala agli astanti la performance musicale della cantante Alessandra Amoroso, facendo tornare in mente a me e ai miei vicini una calda giornata di maggio di qualche anno fa, con un signore coreano intento ad allietarci con una canzone a dir poco fuori luogo. Qualche fischio turba l’ugola della giovane artista, mentre il resto della Sud è intenta a riprendere quella memorabile esibizione con gli scintillanti smartphone.
La partita scorre così lungo i binari dell’apatia e della più totale indifferenza, costringendomi giocoforza a gettare la spugna e abbandonare l’impianto con qualche minuto di anticipo. Ho resistito fin troppo, ma ne è valsa la pena. Così, come nelle precedenti sfide contro Udinese e Porto, mi sono recato allo stadio, a distanza di un anno, a causa di quel malvagio istinto primordiale chiamato curiosità, scontrandomi però con la realtà delle cose e un sistema repressivo che mira unicamente ad un obiettivo: eliminare ogni forma di devianza dagli standard dell’opinione pubblica e ogni briciolo di umana e condivisibile euforia.
L’anticipazione era arrivata direttamente dal capo dell’Osservatorio, la dottoressa Daniela Stradiotto: “Io l’ultrà romanista lo voglio far vivere […] ma chi se ne frega se non entra il bandito?”. Ecco il termine su cui verte la questione. Chi è secondo questi signori un “bandito”? La risposta vien da sola, di Marzulliana memoria. Egli è semplicemente colui che vuole vivere quel settore in piedi, magari dopo aver bevuto insieme agli amici, desideroso di cantare, battere le mani per novanta minuti, sventolare bandiere e respirare l’acre odore di fumogeno; colui che vuole eccedere, magari sfociando in urla e cori di cattivo gusto ma fondamentalmente goliardici, sfruttando in pieno quell’articolo di una certa carta nota con il nome di Costituzione della Repubblica Italiana, che purtroppo per molti difende a spada tratta la libertà di espressione e di pensiero.
E allora, come Sante Pollastri, egli è destinato ad essere sconfitto, perché come disse De Gregori: “un bravo poliziotto che sa fare il suo mestiere sa che ogni uomo ha un vizio che lo farà cadere“. Ed è noto a tutti il nome del vizio di questi pirati che non hanno più un mare in cui navigare a vista: l’aggregazione.
Questa bestia multiforme, il mostro a tre teste da debellare.
Ci sono riusciti, nonostante un anno di protesta civile, pacifica, che avrebbe meritato un’adesione maggiore e un aiuto forte da parte della società. La stessa che a più riprese ha ammesso di aver fatto di tutto per facilitarne il ritorno, assicurando – ad esempio – che non sarebbero state emanate altre multe per il cambio-posto; ovvero quella ignobile e pericolosissima pratica di poggiare i piedi sul seggiolino di qualcuno che sta facendo altrettanto ad un altro, e così via per migliaia di individui complici in questo esercizio osteggiato.
Quelle multe, sfortunatamente, sono tornate a gravare sulle tasche di alcuni. L’avvocato Lorenzo Contucci ha infatti reso pubblici quei documenti che dimostrano l’ennesimo colpo d’ascia verso il corpo ferito, straziato e dilaniato del tifo romano. Roma-Porto è stata non solo l’eliminazione da una coppa destinata a finire nella bacheca dei soliti noti, ma soprattutto la dimostrazione di come tali misure siano chirurgicamente indirizzate a colpirne alcuni. Per educar nessuno.
Potrei augurarmi di vedere manifestazioni spontanee sotto gli organi che hanno partorito tali decisioni inique, magari con l’appoggio di quella stessa società che si vanta di un operato che, a parole, risulta poi esser ben diverso dai fatti. Sarebbe bello ma così non sarà, semplicemente perché oggigiorno il concetto di protesta sociale, di qualunque natura, è stato completamente svuotato del suo senso originario – quello appunto di disappunto – e riempito di stereotipi tali da renderlo, agli occhi dell’ordine dominante, un qualcosa di pericoloso, un esercizio da reietti.
Né spetta a me invitare al ritorno chi, come me d’altronde, ha passato una stagione intera lontano da casa; sarebbe come chiedere ad una Andromaca di osservare il corpo dilaniato del suo amato Ettore. Io la mia dose di masochismo l’ho esaurita, per ora. Quel luogo che per generazioni intere ha rappresentato un vecchio e saggio maestro di vita da strada, regole sociali non scritte e allenamento alla partecipazione, non c’è più. E probabilmente è destinato a non tornare perché per molti, i “banditi” come piace chiamarli oggigiorno, il ruolo da protagonista in una gabbia non vale quello di comparsa nella guerra; anche se son destinati a perderla mestamente. Ma se la loro chiesa è stata rasa al suolo e bonificata, la loro fede mai morrà, continuando a sopravvivere in un posto che non conosce leggi speciali: l’anima. In fondo per un’idea, per dirla alla De Andrè, si muore. Ma che sia di morte lenta.
Gianvittorio De Gennaro.