Cagliari, stadio Amsicora. 16 marzo 1969. La Roma di Helenio Herrera ha appena strappato un punto alla squadra che soltanto l’anno dopo si laureerà campione d’Italia. Uno 0-0 privo di emozioni, come racconterà un giovane Nando Martellini in un video d’epoca, chiudendo il servizio con un laconico “Giuliano Taccola a fine partita entrerà negli spogliatoi. E morirà. Una delle storie più tristi dal dopoguerra a oggi”. Non c’è enfasi nelle sue parole, non ci sono grida o scalpore. Ma compostezza. Sebbene il servizio mandato dalla Rai mantenga nel suo sottofondo una musichetta semi allegra e malgrado lo stesso venga comunque realizzato con tutte le immagini della gara. Taccola, venticinque anni di Vicopisano, ha salutato lo sport e il Mondo in maniera atrocemente precoce. E da lì in avanti diverrà una figura mai dimenticata e iconica per la Roma e i suoi tifosi. Esattamente cinquantacinque anni fa. Oltre mezzo secolo dopo la sua effige si staglia al centro della Curva Sud. A più riprese. Perché se la memoria è qualcosa di importante e fondamentale, il ricordo di storie sinistre legate a sportivi che ciclicamente sono morti ben prima del dovuto, è a dir poco doveroso.
Taccola arrivò nella Capitale a ventitré anni, notato da Fulvio Bernardini durante la sua militanza in B, con la maglia del Savona, in prestito al Genoa l’anno successivo e infine con la maglia giallorossa addosso. Quarantuno presenze e diciassette gol. E un futuro promettente davanti a sé. Eppure quella stagione 1968/1969 lo vide spesso malato: febbre, debolezza, mancamenti. I medici sociali gli diagnosticarono un vizio cardiaco, ma Herrera non volle sentire ragioni, schierandolo quasi sempre nell’undici titolare. A distanza di tutti questi anni e non avendo prove tra le mani, non sta certo a me fare processi al Mago. Di certo, però, le successive denunce di Ferruccio Mazzola (che, sull’Espresso, parlò apertamente di esperimenti a base di farmaci “condotti” dall’argentino ai tempi dell’Inter per potenziare le prestazioni dei suoi giocatori), le non poche morti relative a calciatori di quell’epoca e un muro d’omertà parzialmente caduto sul finire degli anni novanta, lasciano più di qualche sospetto sulla “serialità” di alcuni eventi. Che il doping sia esistito ed esista nel calcio e nello sport – e che provochi, anche alla lunga, effetti drastici e catastrofici -, non lo scopriamo certo noi. Così come l’eccessiva usura degli atleti porta conseguenze spesso irrimediabili (mi viene in mente un Batistuta praticamente sciancato a fine carriera). E per quanto potremmo dire “vabbè, hanno i soldi ed è il loro lavoro”, d’altro canto sarebbe comunque stupido e inumano pensare che un atleta debba essere una sorta di macchina sempre pronta, disponibile e al meglio della condizione.
L’immagine più importante di questo Roma-Sassuolo, dunque, non sono tante le bandiere in curva, il drappello di tifosi ospiti e il gol con cui Pellegrini decide l’incontro. Ma è quello stendardo con la faccia eternamente giovane di Taccola. Nient’altro. E non per retorica, nemmeno per cercare sempre l’assenso di chi si intenerisce di fronte a storie che, dopo tutti questi anni, a volte vengono “spinte” come “brutte favole”. Ma per coscienza, che bisognerebbe sempre anteporre a qualsiasi porcata il pallone partorisca. Perché, effettivamente, quando parliamo di “calcio moderno”, di sporcizia umana in questa disciplina, dovremmo ricordarci che decenni fa non era propriamente un mondo lindo ed esemplare anche se tendiamo ancora a mitizzarlo. È cambiata la comunicazione, lo sport come la società sono costantemente esposti alle luci della ribalta, con internet che ha radicalmente modificato il modo di vivere. Ma il calcio “di prima” non era più pulito di quello contemporaneo. Semplicemente alcune cose venivano fatte, accettate e si consolidavano senza finire sulla bocca di tutti. Ecco perché non si dovrebbe mai prendere nessuna disciplina agonistica ad esempio di come si vive “civilmente”. Da che mondo è mondo la competizione fa uscire il bello ma anche il brutto, il marcio, dell’essere umano. Figuriamoci, poi, quando subentrano anche interessi economici.
In un altro universo, per altre situazioni ma sempre con la voglia di preservare la memoria, voglio sottolineare lo striscione realizzato dai ragazzi di Nel Nome di Roma per lo stadio Ballarin di San Benedetto del Tronto. “La storia non si demolisce” recita il messaggio, richiamando allo slogan che i marchigiani hanno adottato da qualche anno in merito al vecchio impianto che, da alcune settimane, sembra esser diventata la prima preoccupazione delle istituzioni locali del tutto disinteressata alla sacralità sociale di quel luogo. Ecco, ciò che di questo sport è rimasto senza dubbio intatto e ancora considerevole, è la dedizione dei tifosi verso la sua anima più profonda, che da più di un secolo fa innamorare intere generazioni. Ma cosa ne sarà quando tutte le gradinate del Ballarin saranno buttate giù? E quando, prima o dopo, stessa sorte sarà riservata anche a tutti i simboli di quello che nell’anima del supporter da stadio rimbomba come proprio cuore pulsante? Quella, se verrà, sarà l’era in cui non ci saranno più ricordi e rivendicazioni. E allora, forse ancor più che per repressione e restrizioni, sarà la volta di lasciare gli spalti a gente il cui unico desiderio sarà ordinare il proprio Deliveroo o veder segnare gli avversari di sempre per vincere al Fantacalcio. Loro ci vedranno come marziani di un’epoca lontana, noi semplicemente come dei clienti senza volontà e dignità. Ma ovviamente ad aver ragione saranno i secondi.
Simone Meloni