Gelsenkirchen stadt der tausend feuer. “Gelsenkirchen città dei mille fuochi”: così recita un gigantesco murales che si staglia pochi metri sopra la fermata del tram adiacente allo stadio. Il messaggio arriva fieramente al cuore dei tifosi dello Schalke e riverbera le loro radici operaie, ancora una volta, esattamente come a Essen il giorno prima. Città e tifoserie nemiche, tuttavia unite dalla storia e da un indotto che per anni ha rappresentato un grande serbatoio per la Germania intera. Si tratta dell’ultima cosa che vedo prima di incamminarmi verso Dusseldorf, dove mi aspetta il Flixbus per Strasburgo. La Veltins Arena è stato l’ultimo stadio tedesco di questo mio piccolo tour iniziato a Bruges e che vedrà come ultima tappa il capoluogo dell’Alsazia. Leverkusen ed Essen mi hanno accompagnato nei primi due match e quella di Gelsenkirchen rappresenta forse la sfida verso cui nutro più curiosità. Sia per i padroni di casa – capitombolati in seconda divisione da qualche anno – sia per gli ospiti, notoriamente tra le tifoserie più rispettate di Germania. E sì che ce la metta davvero tutta per rischiare di perdere clamorosamente questa partita: quando alle 9:30 mi sveglio, ancora stordito dal sonno, nel mio ostello di Colonia, solo per curiosità vado a vedere l’orario di disputa del match, che nella mia mente inizierà alle 15. Con grande sorpresa, invece, apprendo che le ostilità si apriranno alle 13, costringendomi a triplicare la velocità delle mie azioni, al fine di incastrare treni e spostamenti e raggiungere lo stadio senza perdermi nulla. La sera precedente, in quel di Essen, il mio volermi trattenere fino a tardi all’interno dello stadio, poteva costarmi davvero cara!
Come sempre i convogli tedeschi pullulano di gente e quando scendo a Essen per cambiare, molti ragazzi con sciarpa biancazzurra al collo si ammassano sulla banchina. La concentrazione di città, squadre e tifoserie in quest’area della Renania-Vestfalia, è davvero impressionante e non faccio fatica a credere che possano esistere sia amicizie che rivalità importanti proprio all’interno di un fazzoletto di terra. Peraltro anche nella storia del Fußball queste latitudini rappresentano un importante punto di riferimento, in cui si concentrano scudetti, trofei, vittorie, blasoni e tradizioni importanti. Sebbene qualcuno oggi annaspi e faccia fatica a rinverdire anche i recenti fasti in Bundesliga. Basti pensare proprio allo Schalke, che dopo esser retrocesso in seconda divisione quattro anni fa (interrompendo una striscia che vedeva il club da trent’anni ininterrottamente presente in Bundesliga), malgrado un pronto ritorno nella massima serie, è subito tornato in 2.Bundesliga, rischiando addirittura di lottare per evitare la terza divisione. Andamento figlio di una gestione divenuta sempre più problematica da qualche anno a questa parte – anche a causa dapprima del dimezzamento degli investimenti della Gazprom e, successivamente, dell’allontanamento voluto dal club di suddetto sponsor, in seguito allo scoppio del conflitto russo/ucraino -, tanto che fa quasi impressione pensare che appena cinque anni fa i Knappen (minatori) erano impegnati in un ottavo di finale della Champions League. Tuttavia mi permetto di dire che la competitività del calcio tedesco si vede anche da questi aspetti: salvo rarissimi casi, un po’ tutti possono ottenere buoni risultati e qualche anno dopo piombare nella categoria inferiore. Al netto di tutto – e me ne accorgo già arrivando in stazione – quello che mi lascerà di stucco sarà il numero di tifosi presenti allo stadio. Malgrado si tratti di una partita senza grandi significati sportivi per uno Schalke che non può ormai più puntare alle zone alte. Un match che, invece, potrebbe offrire le ultime, residue, chance salvezza all’Hansa Rostock, sebbene appaia davvero difficile il mantenimento della categoria dopo un girone di ritorno a dir poco infernale.
Il primo ricordo calciofilo che ho, legato al Null-Vier, è quello relativo alla finale di Coppa UEFA 1996/1997, vinta dai tedeschi contro l’Inter. Una doppia sfida che mi tenne incollato alla televisione e della quale, malgrado i miei dieci anni, ricordo perfettamente l’1-0 per i teutonici nella gara di andata, al vecchio Parkstadion, siglato dal belga Wilmots, e il gol di Zamorano a San Siro, negli ultimi minuti del match di ritorno. Una rete che sembrò spostare l’inerzia in favore dei meneghini, i quali tuttavia non seppero raddoppiare nei supplementari, lasciando alla lotteria dei rigori l’esito sulla vittoria finale. Winter e proprio Zamorano sbagliarono dal dischetto, consacrando per la prima volta lo Schalke vincitore della Coppa UEFA, per il visibilio degli oltre diecimila tifosi presenti al primo anello. Una tifoseria che all’epoca viveva ancora secondo i dettami del mondo curvaiolo tedesco, praticamente non organizzato e di stampo più che altro Hooligans. Calcisticamente quella è stata senza dubbio la pagina più gloriosa per il sodalizio teutonico, che sebbene possa contare sette titoli nazionali, fino ad allora doveva percorrere a ritroso circa quarant’anni prima di trovare l’ultima vittoria prestigiosa (campioni della Germania Ovest 1957/1958).
Quando il tram apre le porte all’ultima fermata, quella dello stadio, la prima figura che mi si para davanti è ovviamente quella dei ragazzi intenti a raccogliere, con i loro carrelli e le loro buste, bottiglie di plastica e vetro, che grazie al sistema di riciclo già descritto in altri articoli sul calcio tedesco, frutteranno loro diverse centinaia di Euro, andando a rimpinguare un sistema che personalmente ritengo davvero efficace e civile per quanto riguarda la sostenibilità ambientale e l’aiuto economico verso le fasce più deboli. Un caldo primaverile riscalda tutta la zona della Veltins Arena, mentre metro dopo metro lo stadio si staglia sempre più chiaramente all’orizzonte. A differenze dell’impianto di Essen – visto il giorno prima – questo da fuori dà una maggiore idea di centro commerciale, mentre agli ingressi notevoli file attendono pazientemente di esser smaltite ai tornelli. Alla fine si conteranno 61.533 presenti (la capienza ufficiale è di 62.271), numeri che lasciano intendere sia quanto l’attaccamento dei tifosi biancazzurri al proprio club sia notevole, sia come lo stato di salute del calcio e degli stadi di Germania sia a dir poco strabordante. Se è vero che personalmente non amo il pre partita del tifoso medio locale – troppo impegnato a ingollare birra e curry wurst – d’altro canto apprezzo francamente quest’ondata di calore che ormai da parecchi anni caratterizza le gradinate di tutto il Paese. E se da un lato, come già detto, ciò è merito del modus operandi di società e istituzioni, che da anni riescono a tenere un’importante base di popolarità accanto al pallone, dall’altra è anche frutto del lavoro degli ultras: un’opera di aggregazione non indifferente. Tangibile anche dai “soliti” murales disseminati attorno all’impianto.
Faccio un po’ di fatica nel rintracciare il botteghino per gli accrediti, ma alla fine riesco agevolmente a ritirare il mio pass ed entrare. E la prima impressione conferma quanto già ipotizzato fuori: la Veltins Arena al suo esterno è una sorta di centro commerciale, con vetrate a specchio e negozi un po’ ovunque. Sebbene al termine della partita avrò modo di ricredermi, almeno sul suo aspetto interno, devo dire che questa parte non mi fa certo impazzire e conferma la mia totale idiosincrasia nei confronti di un certo tipo di stadi. Il paragone che faccio con il nostro Paese – non me ne voglia nessuno – è sempre lo stesso: lo Stadium di Torino, che personalmente individuo come il vero e proprio modello di cosa non fare con un impianto calcistico. Sicuramente in questa mia valutazione pesa (e anche molto) l’atteggiamento avuto dalla Juventus nei confronti della sua tifoseria organizzata, ma è altrettanto vero che ci sono modi e modi di costruire e gestire uno stadio di nuova generazione, come avrò modo di appurare anche a Gelsenkirchen. Il club bianconero non solo ha eretto un qualcosa di commerciale, ma lo ha anche reso freddo e asettico, approntando una repressione mirata e volta a eliminare il suo aspetto più folkloristico (cosa che fortunatamente sembra esser parzialmente naufragata). Mi limito a dire che la casa dello Schalke, seppur comprensiva di un importante lato fatto di negozi e ristoranti, ha comunque mantenuto un’area e degli spazi vitali per lo svolgimento del tifo e la vita dei suoi astanti più radicali e organizzati. Insomma, la convivenza è possibile. E per quanto personalmente sia un cultore di stadi decrepiti e scomodi, comprendo la necessità di cambiamento e rinnovamento, ma credo anche che queste due parole non debbano forzosamente far rima con azzeramento di tutto quello che c’è stato prima. Certo, per far sì che tutte le componenti convivano, è anche necessario che ci siano delle figure in grado di non far sconfinare o calpestare gli spazi altrui.
La Germania, ormai da diversi anni, annovera strumenti come quelli del Fanprojekt, organizzazioni che prevedono la presenza di tifosi per mediare e trattare con leghe, federazioni e club. E grazie alle quali spesso e volentieri vengono arginate derive legate al prezzo dei biglietti o “attacchi” alla storia e alla tradizione dei club. Un qualcosa possibile grazie anche a una base culturale che ha fatto combattere e vincere battaglie fondamentali non solo agli ultras, ma anche ai tifosi più moderati. Vedasi la totale avversione ai match disputati il lunedì (che infatti sono durati una stagione sola), la possibilità di acquistare abbonamenti e tagliandi a prezzi contenuti e la strenua difesa (anche ricorrendo all’interruzione di alcuni match di Bundesliga) del principio del 50+1, criterio che argina rigidamente l’ingresso di investitori esterni in un club e permette la partecipazione in maggioranza dei tifosi. Negli anni poi vanno ricordate diverse battaglie, come quella denominata “12:12”, volta a contrastare diversi punti: dalla limitazione della quota di biglietti spettante agli ospiti, ai controlli più invasivi agli ingressi, alla limitazione del materiale per fare il tifo, all’aumento del Daspo fino a un massimo di cinque anni. Le manifestazioni si sono svolte in diverse città e anche presso la sede della DFB, a Francoforte. La protesta è stata portata avanti anche all’interno degli stadi, con i primi 12 minuti e 12 secondi (che parafrasavano l’essere il dodicesimo uomo e le votazioni della DFB previste per il 12 dicembre) di silenzio per mostrare a tutti come sarebbe stato un calcio senza tifosi. Sebbene alcune misure siano poi state effettivamente adottate, le stesse sono state notevolmente indebolite in seguito alla protesta unitaria. Ecco, già da questo si capisce che lo stato di forma del tifo e del calcio in Germania non è un qualcosa di casuale, ma una condizione figlia anche e soprattutto della costante crescita delle curve e delle loro battaglie trasversali. Basti pensare che ormai sono passati ben diciannove anni dalla prima manifestazione, che risale alla Confederations Cup disputata in Germania nel 2005, seguita poi dall’iniziativa “Separati nei colori – Uniti nell’argomento”, che precedette i Mondiali del 2006 e le presunte regole repressive che il governo e le federazioni volevano mettere in atto.
Tornando alla sfida: quando, finalmente, entro sulle gradinate, il colpo d’occhio è di quelli importanti. La chiusura quasi totale della copertura, rende l’ambiente a dir poco soffocante, mentre nel settore ospiti i tifosi dell’Hansa vanno man mano posizionandosi. Ci metto un po’ di tempo a capire che il contingente proveniente da Est non si limita alla parte bassa, dove sono posizionati gli striscioni dei gruppi principali, ma si dipana anche nell’anello superiore, attestandosi su numeri davvero importanti per una squadra che annaspa nelle ultime posizioni della classifica. Alla mia sinistra, invece, gli ultras di casa fanno bello sfoggio del proprio materiale, cominciando ad esibirsi nei primi battimani e sfoggiando un granitico dress code bianco (non che sia un amante di queste cose: dal total black e dalle maglie dalla squadra indossate da tutti sono in parte affascinato ma in parte anche disilluso, trovando spesso il tutto troppo omologante). Al centro della Nordkurve campeggia lo striscione degli Ultras Gelsenkirchen – il gruppo principale -, mentre spostati più sulla sinistra ci sono gli Hugos. Altro piccolo gruppo che gravita in orbita U.GE sono i Marler Jungs. Sigla storica, di stampo Hooligans ma non più attiva, erano invece i Gelsenszene. Se il gemellaggio con i ragazzi della Sud di Salerno è ormai cosa alquanto conclamata da diversi anni, altri rapporti solidi sono con le curve di Skopje, Enschede e Mönchengladbach. Oltre alla forte e storica rivalità con Dortmund, altre inimicizie dettate dalla contiguità territoriale sono con Colonia ed Essen, acredine molto forte anche con gli ultras dell’Herta Berlino, legata soprattutto a vecchie storie. Gelsenkirchen può vantare, senza dubbio, un’ottima nomea anche extra stadio, soprattutto grazie ai suoi hooligans, che a cavallo tra gli ’80 e i ’90 si sono fatti rispettare in tutto il Paese.
Guardando il blocco ultras quest’oggi, devo dire che resterò positivamente impressionato. E non solo per la bella e densa fumogenata con cui accoglie l’ingresso in campo delle squadre, dietro lo striscione Voller Stolz für unsere Farben (“Pieni d’orgoglio per i nostri colori”) ma anche per il tifo che caratterizzerà il settore per tutti i novanta minuti: voce, mani, un paio di sciarpate e bandieroni sempre in alto nella parte centrale. Se è vero che rispetto all’Italia mancano a volte la fantasia e si eccede in impostazione e rigidità, in generale, nella vita da stadio, è altrettanto vero che la crescita di queste curve è innegabile e trovarsi al cospetto di uno stadio pieno e di un settore che sostiene i propri giocatori e i propri colori senza sosta è stimolante. Se proprio dovessi fare un appunto, forse, direi che nella vetrata centrale sarebbe bello vedere anche altre pezze oltre allo striscione degli Ultras GE, in modo da colorare maggiormente il settore. Sulla fumogenata iniziale, inoltre, sottolineo un aspetto importante, che conferma i passi in avanti fatti dai tifosi tedeschi: una decina di anni fa buona parte dello stadio avrebbe fischiato tale spettacolo, mentre oggi viene accolto in silenzio, se non con qualche applauso. Malgrado gli altoparlanti ricordino che la pirotecnica è vietata e malgrado le istituzioni in diverse occasioni intraprendano delle massicce campagne contro essa. A tal proposito, sempre menzionando battaglie intraprese dai gruppi, non va dimenticata quella per il libero utilizzo di torce e fumogeni, nata dietro l’insegna “Legalizzare la pirotecnica – rispettare le emozioni”, e con cui in passato si è cercato di dar vita a un dialogo con la DFB, che tuttavia non si è comportata onestamente, rimangiando la propria parola e venendo meno ad alcune proposte. Tanto è vero che al termine della campagna è iniziata una vera e propria battaglia mediatica contro la pirotecnica. Addirittura in alcuni talk show delle bambole sono state date alle fiamme per dimostrare la “pericolosità” di torce e fumogeni. La DFB ha poi interrotto i colloqui nonostante ci fossero già perizie e referti positivi portati dagli ultras.
Al cospetto dei ragazzi di Gelsenkirchen, come accennato oggi c’è una delle tifoserie più considerate e rispettate del Paese. Il gruppo principale, i Suptras Rostock, si posiziona in basso, tirando le fila del tifo e riuscendo a coinvolgere tutti i presenti. Volendo dare una breve lettura alla morfologia della tifoseria dell’Hansa, vanno sicuramente menzionati gli Action Connection, compagnia principalmente hooligans e dedita alle attività extra tifo. In passato, sempre sullo stesso filone, meritevoli di rispetto erano anche i Nordische Wut, poi banditi dal tribunale in quanto “organizzazione criminale”, questo in seguito ad alcuni video pubblicati su YouTube che costrinsero le autorità a intervenire. Particolarità della tifo degli Hanseaten è quella di avere due curve attive in casa, fatto davvero molto raro in Germania. Due settori, Süd e Nord, separati da differenti visioni dello stadio. I Suptras prendono posto in Süd, proprio accanto al settore ospiti, cosa che spesso comporta il lancio di oggetti e torce con gli stessi. Anche quest’oggi dimostreranno uno stile molto vicino a quello polacco – tifo caratterizzato soprattutto da manate e cori a rispondere, senza alcuna bandiera – e lo striscione esposto in casa “Nessun attacco ai fan dell’Hansa sarà senza vendetta”, la dice lunga sulla loro filosofia. Così come quello che recita “Fanculo agli ospiti”. Ovviamente non hanno amicizie e non ne vogliono, anche per questo in Germania è assai difficile avere un’idea chiara sulla loro struttura. Emblematica anche una delle ultime “scenografie” composta da diverso materiale rubato agli avversari e bruciato, con l’eloquente messaggio “L’unico modo per stabilire un contatto”. Sulla loro prova canora, poco da dire, sebbene l’assenza di stendardi e bandiere non me li faccia apprezzare fino in fondo. Però la voce c’è e si evince come anche padri di famiglia o tifosi normali, cantino senza sosta. Soprattutto dopo il 2-1 subito, quando lo spettro della terza divisione diventa sempre più reale.
Il risultato finale, segnato dal momentaneo pareggio ospite che aveva dato le ultime speranze ai tifosi di Rostock, serve soltanto per gli almanacchi e per produrre l’ultimo abbraccio stagionale tra i tifosi di casa e la propria squadra. Umore diametralmente opposto nei pressi del settore ospiti, dove l’Hansa viene contestata, ormai condannata alla retrocessione e a ricostruire club e ambiente per tornare quantomeno in seconda divisione. Un declassamento che conferma tutte le difficoltà che i club dell’Est hanno riscontrato dalla Caduta del Muro nel mantenere un livello decente. Basti pensare che ormai, da tanti anni, salvo l’Union Berlino (per ovvie ragioni non considero la RB Lipsia), difficilmente compagini dell’ex DDR riescono ad approdare stabilmente nelle massime categorie del calcio teutonico. Nota importante, ma solo per i malati di tifo, è che l’anno prossimo ritornerà il derby con la Dynamo Dresda, uno dei più sentiti e tesi di tutto il movimento ultras nazionale. Non mi resta che osservare le ultime scene di questa giornata, offerte in particolar modo da Gerald Asamoah, ex attaccante dello Schalke nonché della Mannschaft, che diventa vera e propria guest star, prima che lo stadio cominci lentamente a svuotarsi e anche per me lentamente si avvicini il momento di lasciare le gradinate. Ma non prima di aver effettuato un solitario giro perimetrale dello stadio, per fotografare murales e scritte e riuscire anche a entrare in campo, dove ormai sono rimasti solo gli addetti ai lavori. Quando raggiungo la fermata del tram, per andare verso la stazione centrale, in giro non c’è più nessun ormai. Gelsenkirchen stadt der tausend feuer, su quel muro che polarizza il mio sguardo e che lentamente si allontana quando il mezzo parte. Anche dell’ultima birra non è rimasto che un sorso nel bicchiere, segno che il soggiorno in Germania è veramente finito. Stavolta me ne vado più ricco di cose viste e apprese rispetto a qualche anno fa, quando forse prendevo meno seriamente il movimento ultras tedesco e tutte le sue peculiarità. Perché se continuo a non sposarne taluni aspetti, legati più che altro al modo rigidamente gerarchico e a quello sin troppo schematico di vivere la quotidianità, mi incuriosiscono e rispetto profondamente tutti i punti a cui le curve e i tifosi locali sono ancorati e attraverso cui riescono a esser non solo una parte dell’ingranaggio, ma miscela fondamentale per il carburante. Lascio la Germania alle mie spalle dirigendomi verso l’Alsazia, ma ripromettendomi di tornare per ampliare ancor più il mio punto di vista. Adesso, effettivamente, quel settore ospiti di San Siro, occupato da diecimila tifosi dello Schalke 04, così vicini al campo ma così lontani al nostro modo di essere, mi sembra ancor più distante nella sua filosofia, benché qualche retaggio rimanga e componga la base della cultura da stadio locale. Ma questo è un’analisi che saprò meglio affrontare nei prossimi anni!
Simone Meloni