Quando apro gli occhi, svegliato di soprassalto da una signora che mi chiede se debba scendere a Zurigo, il convoglio dev’esser già da tempo in stazione. Fortuna che una certa prontezza nei riflessi, un buon orientamento in ambito ferroviario e pure un pizzico di fortuna, mi permettono di divincolarmi nel grande scalo zurighese e capire da dove parta – dopo una manciata di minuti – il treno per Ginevra. Ultimo cambio di un percorso cominciato a Monaco di Baviera con uno dei classici ICE (Inter City Express) direzione Stoccarda, inframezzato da un sin troppo comodo Intercity per Zurigo e terminato, per l’appunto, dall’Intercity per Ginevra. Il fatto di viaggiare di notte, dovendo cambiare per ben due volte, è stato un rischio non da poco, considerata la stanchezza accumulata in tutta la giornata che ha preceduto Bayern Monaco-Copenaghen e aggravata dal non poter dormire praticamente mai. Sta di fatto che, anche se per il rotto della cuffia, alla fine tutto va per il meglio. Non sarebbe stato il massimo dover trovare una soluzione alternativa per raggiungere la destinazione finale, anche considerata la tempesta di neve che nel frattempo sembra prendere possesso di buona parte del territorio elvetico, con freddo annesso. A cavallo tra novembre e dicembre non ci si può certamente aspettare certo una temperatura mite, ma mi chiedo sempre con quale nonchalance da queste parti vivano il terribile mix tra grigiore, temperature rigide e – come in questo caso – pioggia che cade fina, fastidiosa e ininterrotta per giorni e giorni. Poi però, pensando a quanto questo Paese produca e offra ricchezza, ho una risposta più che attendibile (passatemi la battuta!).

Servette-Roma arriva al termine di un viaggetto che per qualche giorno mi ha portato tra Veneto, Germania e Svizzera. Considerato il divieto di trasferta per Tiraspol e il poco appeal che Praga esercita su di me (meta divenuta ormai quasi esclusivamente ad appannaggio di sfascioni, turistoni e gente che non dovrebbe uscire dai propri confini comunali neanche per andare in esilio), alla fine la gara di Ginevra rappresenta – da un punto di vista ultras e culturale – sicuramente l’appuntamento più interessante. Sono curioso sia di vedere all’opera la tifoseria locale, che di girare la città, uno dei pochi grandi centri svizzeri che non ho mai visitato. Certo, come detto, il meteo non sarà propriamente dalla mia parte: per due giorni non farà altro che piovere, piovere e piovere ancora. Senza sosta. Cosa che tuttavia non blocca la mia voglia di camminare e vedere tutto il possibile, cominciando dal Lago Lemàno, il più grande del Paese, che ammantato tra foschia e maltempo assume comunque un suo fascinoso aspetto. Inoltre, da approfondito lettore di atlanti nella mia infanzia/adolescenza, non posso che essere colpito nel vedere, finalmente, questo bacino d’acqua formato dal Rodano, suo principale immissario ed emissario, nonché fiume sovente citato e descritto nell’Orlando Furioso di Ariosto, che sulle sue sponde fa seppellire i giovani amanti Isabella e Zerbino. Il cielo plumbeo mi mette difficoltà nell’immaginare quando invece d’estate le spiagge lacustri si popolano di bagnanti e turisti in villeggiatura. Per togliermi lo sfizio, mentre cammino lungo la costa in direzione del Je d’Eu (letteralmente, il getto d’acqua, uno dei simbolo di Ginevra) salgo su un piccolo traghetto che fa la spola tra una sponda e l’altra. Servizio pubblico, un po’ come prendere un autobus. E dato che nell’ostello dove alloggio mi hanno anche regalato un abbonamento valido quarantotto ore, perché non approfittarne? A bordo siamo solo io e la conducente, cosa che ovviamente non mi dispiace!

Siamo a pochissimi chilometri dal confine con la Francia e, ovviamente, nel cantone dove la lingua predominante è di stampo francofono, altro aspetto che accende la mia curiosità, avendo sinora visitato solo il Ticino e zone germanofone della Svizzera. Ma Ginevra è innanzitutto un importantissimo polo economico e commerciale (secondo solo a Zurigo nel Paese), nonché una città dove alcuni tra i più importanti apparati istituzionali e scientifici europei hanno sede e muovono le proprie attività. Basti pensare al Palazzo delle Nazioni, l’edificio più importante al Mondo – dopo il Palazzo di Vetro a New York – in cui hanno sede gli uffici delle Nazioni Unite o alla sede del CERN, il più grande laboratorio al Mondo di fisica delle particelle. Avrò modo di visitarlo l’indomani, imbattendomi in diverse scolaresche a farmi compagnia e rimanendo affascinato particolarmente dalla sezione riguardante l’universo e tutto il suo studio sin dalle origini. Senza voler entrare troppo in su cui davvero posso essere al massimo un appassionato osservatore, mi limito a dire che questo genere di viaggi riescono a lasciarmi dentro sempre un qualcosa in più proprio grazie al mio voler spaziare dal contesto calcio/spalti a quello cittadino, storico e culturale. Cosa che mi fa sempre rimpiangere il non aver continuato in maniera più costante e assidua gli studi. Ma a vent’anni troppe volte la testa si occlude in favore di minuzie o priorità secondarie, anche se non ho nulla da rimpiangere. Fortunatamente c’è sempre tempo e modo per recuperare le infinite lacune del sapere, spiace solo che non ci sarà mai la parola “fine” nell’apprendere.

Ma oltre alla Ginevra moderna, a tratti avveniristica e palesemente benestante, dove affonda le sue radici questa città? Me lo chiedo visitando il Museo di Arte e di Storia, dove mi imbatto spesso in quadri, in reperti e in riferimenti sia all’Italia (il versante italiano del Monte Bianco è rappresentato davvero a più riprese) che alla sua storia antica. Ovviamente i legami col nostro Paese, oltre a esser dovuti alla contiguità geografica, sono figli della dominazione romana. Siamo in un territorio che in epoca preistorica fu abitato e colonizzato dai liguri, uno dei popoli italici più forti e bellicosi, basti pensare che ancora oggi il loro nome vive in una regione italiana e nel suo mare. Tuttavia quando Giulio Cesare – alla conquista della Gallia – arriva da queste parti trova le tribù celtiche degli Allobrogi e degli Elvezi, riuscendo a sottometterli e fondando Genava, nome che deriva dal celtico genu/genawa (estuario, golfo). Sebbene la città abbia sin da subito avuto una discreta importanza grazie al suo porto e alla sua posizione di passaggio, va detto che è successivamente alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente che comincia a svilupparsi in maniera più forte da un punto di vista del potere. Sia grazie al nobile status di Capitale nel neonato Regno dei Burgundi (una delle tante popolazioni germaniche), sia durante la prima età moderna, quando ricopre un ruolo cruciale in ambito religioso con l’avvento di Giovanni Calvino, tanto da valerle l’appellativo di Roma Protestante. Ad oggi l’eco di questo passaggio storico fondamentale è scolpito nel Monumento ai Riformatori e ben rappresentato nella Cattedrale di San Pietro, fulcro della città nel suo punto più alto. Sempre rammentando quanto questa sia terra di illustri pensatori, bisogna citare giocoforza Jean Jaques Russeau, filosofo e scrittore a dir poco radicato nel percorso formativo di buona parte del Vecchio Continente.

Da un punto di vista architettonico, è nel Medioevo che la città conosce una crescita importante, con una cinta muraria ben delimitata e il cuore urbano arroccato su una collina, dove per l’appunto oggi si staglia la parte vecchia. La particolarità politica, l’indipendentismo, le scelte religiose, poco si confanno all’annessione – avvenuta in epoca napoleonica – della Repubblica di Ginevra alla Francia. Così, nonostante anche dopo la disfatta di Waterloo la città rimanga una provincia francese reinserita nel contesto della restaurazione dell’Ancien Régime, da lì a poco le autorità cittadine richiederanno in maniera sempre più pressante l’inserimento nella Confederazione Svizzera, che avverrà ufficialmente nel 1815. Il XX secolo ha infine visto Ginevra ricoprire un ruolo sempre più importante a livello internazionale, nonché essere – soprattutto nel secolo scorso – meta di molti emigrati per le sue industrie manufatturiere e meccaniche. Va anche ricordato che proprio qui è nata ed ha tutt’oggi sede la Croce Rossa Internazionale.

Per quanto concerne le tradizioni cittadine, sinergiche anche all’identità curvaiola, è impossibile non menzionare la celebrazione dell’Escalade. Festa cittadina celebrata ogni 12 dicembre in ricordo della vittoria della repubblica protestante sulle truppe del duca di Savoia Carlo Emanuele I in occasione dell’attacco sabaudo lanciato nella notte dall’11 al 12 dicembre 1602, secondo il calendario giuliano (ossia il 21-22 dicembre nel calendario gregoriano) per conquistare al città e porla sotto l’egida francese. Il nome “Escalade” rievoca il tentativo di scalata da parte dei Savoiardi delle mura della città per mezzo di scale di legno smontabili. A tal proposito, gli ultras del Servette sono soliti cimentarsi in un canto che ricorda l’episodio e che viene seguito da tutto lo stadio. Le strofe sono scritte e cantate in francese antico, il che rende ancor più suggestivo questo momento. Quando si dice l’unione imprescindibile tra il tifo e la storia del luogo dove si è nati e cresciuti.

Al netto di tutto ciò, devo ammettere che da un punto di vista di mera bellezza, forse sono rimasto un po’ deluso. Il centro storico preserva bei scorci, viuzze ben custodite e la zona attorno alla cattedrale, nonché la bella Place Bourg du Four, sono senza dubbio meritevoli di una visita. Ma rispetto ad altre città elvetiche (Basilea, Berna, Lucerna, ma anche la parte vecchia di Zurigo devo dire) mi ha destato meno impressione, anche se forse andrebbe rivista d’estate o quantomeno in una bella giornata di primavera per saggiarne le spiagge e i parchi disseminati lungo il lago. Poi va anche detto che sono considerazioni attinenti al gusto personale: se da una parte, ad esempio, ho apprezzato il davvero bel giardino botanico situato nei pressi del Palazzo delle Nazioni, dall’altro mi lascia sempre un senso di fredda inquietudine la troppa, asettica, perfezione di questi posti. L’essere abituato alle città italiane, che anche nella loro forma più ordinata e sfarzosa comunque presentano un sussulto di vita popolare, è indubbiamente un elemento troppo ingombrante in questo tipo di giudizi!

Camminando qua e là per le strade del borgo vecchio, capita di imbattersi in numerosi adesivi della Section Grenat, gruppo che dal 1988 coordina e organizza il tifo al seguito del Servette. Ma quindi, come viene vissuto il calcio da queste parti? Chi “bazzica” il pallone da qualche anno sa bene che i granata, in passato, sono stati tra i club più importanti del campionato elvetico e, ancora oggi, con diciassette titoli, sono al terzo posto (dietro Basilea e Grasshopper) per vittorie conquistate. Eppure i ginevrini nell’ultimo ventennio hanno dovuto subire l’onta di ben due retrocessioni, di cui l’ultima (2012/2013) sotto forma di fallimento e ripartenza dalla terza divisione, tornando in Super League solo nel 2019 e ritornando a disputare una competizione europea proprio quest’anno. Eppure la sfera di cuoio ha origini antiche in riva al Lago Lemàno: il club infatti viene fondato nel 1890, prendendo in “prestito” il nome dall’omonimo quartiere e figurando tra le fondatrici del campionato di calcio nazionale. Una curiosità: con l’acquisizione del sodalizio avvenuta nel 2015 da parte della Fondazione 1890, quest’ultima ha intrapreso un percorso di unificazione – sotto al nome Servette – delle varie discipline sportive svolte in città (calcio. hockey, rugby), così da unire sotto un’unica bandiera, quella granata, una sorta di polisportiva che rappresenti al meglio tifosi e atleti della comunità ginevrina.

Il Cantone Francese negli ultimi anni è, probabilmente, quello meno celebre per il calcio. Chi è nato almeno negli anni ottanta, di contro, ricorderà con una certa nitidezza la partecipazione alle varie coppe europee di squadre come Il Neuchâtel Xamax, il Losanna e, per l’appunto, il Servette, impegnate sovente contro squadre italiane. Il ritorno dei granata in una competizione continentale, pertanto, è anche un modo per interrompere il predominio germanofono che ormai da diversi anni rappresenta il Paese rossocrociato in campo internazionale. E inoltre, aggiungo, sentir tifare in francese è certamente un elemento di interesse, se non altro perché – personalmente – ciò che a volte trovo “disturbante” nel tifo di austriaci, tedeschi e parte degli svizzeri, è proprio la “pesantezza” nella pronuncia, che non permette uno slancio ritmico e canoro più aulico.

Da un punto di vista storico, va detto che i primi colori del club furono il verde e il rosso, come le divise regalate da uno dei soci fondatori. Il passaggio al granata è ancora incerto: c’è chi sostiene che la scelta fu fatta per allontanarsi dal rosso – che all’epoca identificava squadre vicine ai sindacati o a movimento politici ben schierati -, e chi invece adduce tale cambiamento a un semplice errore da parte dei fornitori del materiale tecnico, che il seconda battuta piacque comunque ai dirigenti. Poi c’è anche l’ipotesi che vorrebbe l’adozione del granata per una simpatia di uno dei presidenti dell’epoca nei confronti del Torino. Le storie riguardanti la cromia delle maglie e degli stemmi, penso sia sempre una degli aspetti più interessanti, perché spesso in grado di restituire l’indice di appartenenza e identità di una squadra con la sua città. Di sicuro, al netto di una città che conta duecentomila abitanti (seconda nella nazione elvetica solo a Zurigo) il seguito non ha mai vantato un numero notevole di presenze allo stadio, forse pagando sin troppo lo scotto di una città borghese e tendenzialmente fredda. Di contro il popolo ginevrino si è sempre fatto trovare pronto e la sua ala più radicale, quella degli ultras, per me veste i panni di una delle realtà più interessanti e piacevoli del Paese. Al netto delle due volte che li ho visti all’opera, mi hanno lasciato davvero una buona impressione, sia nel modo di frequentare le gradinate che in quello di fare tifo. Inoltre, va ricordato, perché per nulla scontato, che la Section Grenat non ha mai lasciato soli i propri colori negli ultimi venti, catastrofici, anni.

Il dispiacere è quello di non aver potuto vedere con i miei occhi il vecchio Stade des Charmilles (15.000 spettatori con una media di 5.000 presenze), impianto storico in cui i granata hanno giocato dal 1930 al 2002, quando venne sostituito dal nuovo e più capiente (30.000 posti) Stade de Genève, versando in stato di abbandono per ben nove anni e venendo poi raso al suolo per far spazio a un parco e a degli alloggi. Quando un vecchio tempio del calcio viene abbattuto mi piange sempre il cuore e non perché voglia fare a tutti i costi il passatista. Contrariamente a quanto sostenuto da geni della comunicazione alla Caressa (che tempo fa sbeffeggiò chi si opponeva alla demolizione di San Siro in luogo di un nuovo impianto ricordandone tutto il valore storico, architettonico e affettivo), credo fermamente che le gradinate siano la cartina al tornasole di una buona parte della storia cittadina novecentesca e come tali andrebbero difese, magari convertite in centri sportivi ad altra destinazione, anziché inghiottiti dalla speculazione edilizia o, peggio ancora, dall’abbandono. Gli esempi più stomachevoli, tuttavia, restano quelli relativi agli stadi inglesi (Maine Road del Manchester City, Upton Park del West Ham e Highbury dell’Arsenal su tutti), dove tutta la millantata esaltazione delle tradizioni paventata dagli inglesi viene letteralmente presa a calci dalla voglia di guadagnare.

Tornando al Servette e alla sua gente, particolare quanto avvenuto in seno ai due fallimenti. Nel 2005 il club venne relegato nelle divisioni amatoriali, con la seconda squadra impegnata in terza divisione che divenne la prima, conquistando immediatamente la promozione e tornando in massima divisione nel 2011, dopo aver sconfitto il Bellinzona nello spareggio. L’anno successivo il club torna addirittura a disputare una competizione europea, grazie al quarto posto conquistato in campionato, mentre nel 2013 arriva la prima retrocessione sul campo della storia dei granata, causata anche da condizioni societarie che si fanno sempre più preoccupanti. Nel 2015 il club viene infine retrocesso d’ufficio in terza divisione, non avendo liquidità per effettuare la regolare iscrizione. Il resto è storia già raccontata, con il ritorno al grande palcoscenico continentale e un pubblico che in questi anni si è dimostrato maturo a tal punto di onorare al meglio l’amore per uno dei sodalizi più storici e celebri del Paese.

Pertanto non mi rimane che salire sul tram e dirigermi verso lo Stade de Genève. Azione che sarebbe pure facile ma che il sottoscritto rende difficile, aspettando per diversi minuti su una banchina dove non passa nulla e maledicendo il trasporto pubblico ginevrino. Salvo accorgermi, dopo un po’, che sto attendendo dalla parte sbagliata! Sul mezzo, peraltro, incappo in due nerd italiani che parlano di calcio come stessero parlando di meccanica quantistica e che, oltretutto, non sono neanche tifosi della Roma ma stanno andando allo stadio tanto “per passare una serata”. Scoprirò che abitano e lavorano a Ginevra da anni ma che l’unica partita che hanno visto allo stadio locale è un’amichevole dell’Italia. Diciamo che diversi elementi non solo qualificano i soggetti, ma mi indurrebbero proprio a togliergli i biglietti di mano e “devolverli” a qualcuno che è rimasto senza. Perdonatemi la considerazione acida, ma ormai su certe cose ho capito che la diplomazia non solo è inutile, ma persino controproducente.

Una volta sceso dal tram mi incammino verso l’impianto, che si presenta ben raccolto e abbastanza sgombero da controlli e polizia. Tanto è vero che posso praticamente circumnavigarlo quasi appieno facendo foto ad adesivi e scritte degli ultras locali. Noto invece come i romanisti, alla spicciolata, comincino ad arrivare camminando liberamente attorno al perimetro dello stadio per poi raggiungere l’imbocco del settore ospiti. Ovviamente non c’è alcun tipo di rapporto tra le tifoserie e i ragazzi di Ginevra non sono propriamente celebri per una spiccata devozione alla violenza o ai tumulti. Cosa che, da quanto mi è sembrato di capire, appartiene più all’area ultras germanofona (probabilmente anche grazie ai maggiori numeri su cui può contare).

Eppure ci troviamo di fronte a uno dei gruppi più vecchi e consolidati della Svizzera. Anche qui, come avvenuto un po’ ovunque oltre l’arco alpino, inizialmente i frequentatori più “esagitati” delle gradinate avevano una sembianza hooligans, rifacendosi al costume inglese ma anche a quanto si vedeva negli anni ottanta e parte dei novanta in Germania. Tanto è vero che, verosimilmente, il gruppo ottiene una sembianza ultras nel 1993, con la voglia di riprodurre quanto si vedeva in Italia e, parzialmente, anche in Francia. Contestualmente ai successi dei granata, gli ultras crescono riuscendo a ottenere un’ottima reputazione a livello nazionale. Il passaggio dal vecchio stadio all’impianto situato oggi in zona Praille, rappresenta ovviamente un freno a mano per il tifo organizzato ginevrino. La Section Grenat si ritrova a gestire innanzitutto uno spazio immenso rispetto a quello a cui era abituata e, complice anche l’impiego del terreno di gioco per gli Europei organizzati assieme all’Austria nel 2004, una repressione più marcata cinge d’assedio un gruppo che, come detto, non può contare su numeri stratosferici. Ciononostante si va avanti e, nota di merito, quando il club viene retrocesso per la prima volta, nel 2005, favorendo l’ascesa della seconda squadra che militava in Challenge, gli ultras optano per la scelta più dura: seguire il sodalizio ripartito dalla terza divisione. Insomma, una bella cartina al tornasole dell’anima di questo gruppo e del suo modo di ragione. Per i più curiosi: il gruppo storicamente intrattiene un rapporto di amicizia con i ragazzi di Lugano e Sochaux, mentre la rivalità più sentita resta quella con Sion.

Quando decido di entrare allo stadio – e smettere per almeno un paio d’ore di prendere acqua – manca poco meno di un’ora al fischio d’inizio. La sala stampa è palesemente adibita in una sorta di ex magazzino, il che restituisce un’immagine spartana quanto umana di questo club. Tifosi e staff vanno orgogliosi della qualificazione conquistata, prendendo la stessa come una ricompensa dopo anni bui e di sofferenze. Il che suscita un non so che di simpatia in me. Comunque non rinuncio al tè bollente prima di salire sugli spalti e cominciare a scorgere i due settori da fotografare. La Section Grenat è in procinto di realizzare una qualche coreografia e vedo molti ragazzi impegnati nel fare su e giù nel settore, mentre la parte dedicata i romanisti si è praticamente riempita, con l’unica pezza rappresentativa (la Lupa Capitolina) appesa sulla ringhiera, in rappresentanza di tutta la Curva Sud. Per i giallorossi vincere è obbligatorio, pena terminare il girone al secondo posto e dover affrontare il preliminare in febbraio. Per gli svizzeri, invece, fare risultato sarebbe fondamentale per poter sperare nella “retrocessione” in Conference, assicurandosi un prosieguo della marcia europea.

Quando le due squadre stanno per entrare in campo le luci dello stadi si abbassano. A questo punto la curva di casa ne “approfitta” per accendere una quantità industriale di torce e realizzare, per l’appunto, la coreografia. Diciamo che il “giochetto” fatto con l’illuminazione e lo speaker che incensava lo spettacolo, mi fanno pensare che tutto sommato la società non sia proprio contraria a questo show pirotecnico. Neanche voglio giudicare, resta comunque un bel vedere. Oltre a favorire anche i romanisti, che a loro volta si dilettano in una bella torciata vecchio stampo, con qualche “luminaria” (come le chiamava Jacopo Volpi nelle vecchie cronache Rai anni ’90) che finisce anche in campo. Va detto che da qualche tempo i supporter capitolini hanno ripreso ad “accendere” i propri settori oltre i confini nazionali, valutando evidentemente dove la cosa è fattibile (non a caso, finora, sono stati scelti stadi austriaci, tedeschi e svizzeri). È sempre un bel modo per rinverdire i fasti di una pratica inventata dagli italiani ma alla quale, negli anni, gli stessi hanno dovuto forzosamente dovuto rinunciare, almeno in parte, onde evitare la forte e cieca repressione da parte dei nostri censori sceriffi.

Venendo al tifo: a me la prestazione dei ginevrini è piaciuta. E anche molto. Per una realtà numericamente contenuta, è stato fatto davvero un gran lavoro in ambito canoro: bravi i ragazzi col megafono in mano a coinvolgere spesso tutto il settore e buona parte dello stadio, belli i bandieroni sventolati per tutti i 90′, le tante manate e la notevole la sciarpata effettuata nel finale. Da sottolineare, invece, la continua accensione di torce e fumogeni anche durante la partita. Pure qui, la considerazione che viene da fare è che probabilmente – giudicando da come questi artifizi vengano tenuti in mano con nonchalance – il tutto è ampiamente tollerato. Penso che anche il buon rapporto tra tifosi e società (con i primi che ringrazieranno la dirigenza per la “vacanza” concessa partecipando alle coppe) favorisca una simile libertà. Inoltre ho trovato molto più naturale e meno impostato il modo di vivere lo stadio da parte dei granata rispetto ad altre realtà nord europee, in questo pesa, e non poco, l’influenza “francese”.

Prestazione sufficiente per i romanisti, che forse faticano oltremodo nel coinvolgere gli spettatori posizionati più in alto e lontani dalle logiche ultras. Ciononostante è sempre bello vedere un buon numero di torce accese e notevoli i momenti in cui la coralità aumenta d’intensità, come ad esempio durante i cori a rispondere o in quelli che al momento risultano più gettonati. Ovvio che anche il risultato in campo ci metterà del suo nel non esaltare i presenti: la Roma, infatti, dopo aver trovato il vantaggio con Lukaku, si fa riprendere nella ripresa, compromettendo il primo posto e irritando i suoi supporter. I quali, lo possiamo pure dire, all’esterno ricorderanno comunque la loro spiccata vena “offensiva” in campo europeo, “inciampando” comunque su una realtà, come detto, tranquilla sotto questo punto di vista.

Finisce così con animi contrapposti e il pubblico granata ad applaudire e osannare la propria squadra. Rimango all’interno dello stadio, vedendo il pubblico defluire e godendomi così gli spalti vuoti, pronti a esser immortalati. Piove ancora, non ha mai smesso. Mi devo far coraggio prima di uscire e ripercorrere a piedi la strada per la fermata del tram. La stanchezza si fa sentire forte e chiara, la quattro giorni in giro è arrivata al termine e il mio corpo chiede pietà. Rimane solo l’indomani, per visitare a fondo ciò che mi manca e poi presentarmi alla fermata del Flixbus, per l’infinito viaggio verso la Capitale. A proposito: il maltempo dapprima farà arrivare il torpedone in ritardo e poi rischierà di farmi perdere la coincidenza a Torino a causa di problemi presso il Traforo del Frejus. Non mi vergogno di confidarvi che a forza di tampinare il conducente per fargli contattare il suo collega in parte dal capoluogo sabaudo, alla fine ciò avverrà. Con i passeggeri che alla mia salita sul mezzo per Roma – ritardato a “causa” mia – mi guarderanno come se gli avessi rubato centomila euro dalle tasche. Pazienza, considerato, poi, che la mia destinazione finale neanche sarà Roma, ma Angri (per presenziare al dibattito organizzato dalla tifoseria locale), davvero non potevo permettermi il lusso di perdere il pullman. E poi, considerati tutti i disagi e le infamità cui Flixbus mi costringe sovente, per una volta è stato sacrosanto rivalersi!

Finisce così il mio viaggio. Conscio di aver visto un nuovo stadio, una nuova tifoseria e una nuova città. Lo potrò raccontare e ne potrò osservare le foto, magari anche fra qualche anno, quando qualcuno mi chiederà se quella volta a Ginevra c’ero. È la voglia di sperimentare, viaggiare e vedere cose nuove a tenermi in piedi, cosicché ne possa sempre trarre spunto e insegnamento. Alla prossima!

Simone Meloni