«Che cosa abbiamo ora intorno a noi? Un panorama fatto di macerie». Secondo Alessandro Leogrande, una delle menti migliori che il territorio tarantino abbia mai conosciuto e troppo presto strappato alla vita, così si presentava Taranto dopo la sbornia degli anni ’80 caratterizzata da uno sviluppo privo di fondamenta. Lo stesso panorama ci accoglie quando entriamo allo Iacovone. La tifoseria, nei volti di chi la compone, appare frastornata. Ancora affaticata da un presente che è tutt’ora un’altalena emotiva di complessa gestione e difficile elaborazione. C’è chi si aspettava il pienone in pieno stile “25 aprile”, come a segnare il momento di liberazione dopo il passaggio proprietario ormai prossimo. Ma non ha fatto i conti con gli ultimi 30 anni che hanno caratterizzato il vivere questo cieco e per certi versi tossico nostro amore.

La tifoseria infatti ancora non si fida, nonostante i primi segnali possano indurre all’ottimismo. Le evidenze parlano chiaro: sebbene le presenze siano il triplo della partita precedente, non possiamo parlare di numeri decenti, circa 1.500 contro gli oltre diecimila dell’ultima in casa dei playoff giocati solamente pochi mesi fa. Sembra passata una vita. La curva incarna perfettamente questa diffidenza attraverso una serie di strategie chiare. Ricordando con gli ormai tradizionali cori una presenza, quella dell’ancora – speriamo per poco – attuale proprietà, che è più invadente e indigesta che mai. Ma anche ribadendo una certa distanza spaziale: ci si sistema ancora nell’anello superiore e non nella fossa inferiore. In un territorio bipolare, che si fa preda di facili entusiasmi e di immediate depressioni come un fluido che assume senza sforzo la forma del suo contenitore, la mossa della curva appare di una lucidità disarmante e mette in mostra una maturità che assomiglia a un patrimonio da preservare.

Salire di pochi metri cambia completamente la prospettiva della cosa. Per chi è abituato a vivere la partita giù, nel luogo più caldo, sacrificando la possibilità di seguire bene la partita in nome di un sostegno tattile e vocale, sembra un’altra vita. Sembra, per certi versi, di essere al Bernabeu. Puoi seguire i movimenti tattici, le aperture, le occasioni. Tutto quello che accade in campo assume una chiarezza inedita, al punto che saresti quasi pronto a sederti e contemplare. Il tamburo chiama, ma la distanza si fa sentire, anche perché il Taranto attacca nella direzione opposta: vedi meglio, certo, ma questo presuppone una distanza quasi oggettiva che mette a repentaglio quel meccanismo intersoggettivo che le pedine del pallone danno vita ad ogni partita che si rispetti. 

Forse inconsciamente c’è anche questo meccanismo nella scelta dei cori: oltre quelli contro la – si spera quanto prima vecchia – società, che sono quelli cantati con più partecipazione, la scelta ricade su quelli contro le fdo e autoriferiti, un frame che si ripropone anche nei testi dei nuovi cori. Tutto è tematizzato dai tre striscioni che si succedono: uno dedicato all’anniversario de “I Pirati della Nord”, il secondo che, riferito alla scomparsa dei ragazzi di Foggia, ricorda quanto le istituzioni propongano due pesi e due misure anche davanti alla morte e, a proposito di questa, c’è il terzo che ricorda quella di Stefano Cucchi per ciò che è: omicidio di Stato. Chiedersi il motivo di questo piccolo rifugio di autorappresentazione – tra la falce dei daspo e una lega che ignora anche le tragedie – assume i contorni di una domanda prevenuta che non tiene conto di un solco che si ingrandisce inesorabilmente. Come quello che c’è tra tifoseria e squadra. E anche se è il segno dei tempi che attraversano la Taranto calcistica, e quindi piccoli cambi di segno significherebbe che il vento sta cambiando, forse dovremmo tenerci stretti i baluardi che resistono all’oblio.

Del resto basta guardarsi intorno: tribuna e gradinata neanche insieme contano le persone che sono al centro dello spicchio centrale superiore della nord. Se la tifoseria non risponde, tocca alla Curva farsi carico, almeno sul piano simbolico, delle istanze che ci attraversano.  

Nel secondo tempo, però, col Taranto che attacca sotto la curva, iniziamo a scorgere quella combinazione magica dell’incantesimo della vicinanza dei corpi, chi sul rettangolo verde e chi sugli spalti: «Eh! Forza grande Taranto, Taranto…» Lo spartito cambia di segno macinando supporto. Il Taranto ci prova, anche se con limiti evidenti l’impegno non manca. Qualcuno verso le parti più periferiche del settore si alza in occasione dei calci piazzati. Un coro si alza forte: «Nella mia vita ci sono due colori, sono i colori che a me fanno soffrire…» Se ci fosse stato il gol, tutti i presenti avrebbero manifestato nei momenti successivi il presentimento: l’illusione della magia del tifare tiene conto della scaramanzia. Finisce invece la partita, a reti bianche, con rammarico ma anche con la consapevolezza che la squadra, probabilmente, più di questo non può fare. La Curva con le sue tante anime lo capisce perfettamente e non ha alcuna vergogna nell’applaudire la squadra, che sembra sia pronta a ricevere la sanzione con rinnovata curiosità. La successione dei cori è da manuale: «Ci devi credere!», «Noi vogliamo gente che lotta!», «Taranto! Taranto!», «per la maglia alè!»

Insomma, per ricostruire le macerie forse ci vorrà tempo, o magari saremo in grado di offrire una di quelle fiammate umorali che solo la passione ti porta inaspettatamente a sfoderare. Anche se dalle crepe, se si guarda bene, si può intravedere già l’insistenza di una luce che vuole prendersi la scena.

Testo di STiT
Foto di Fabio Mitidieri