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Pensai talmente forte che alla fine mi resi conto di non potervi raccontare il Commando Ultrà Curva Sud come ritengo sia doveroso. Troppo alto il rischio di non dar il giusto merito e sfociare in un’insulsa prosopopea ricca di aneddoti e racconti già sviscerati da tanti prima di me.
In fondo, quando in una velata giornata di inizio gennaio del 1977 la maggior parte dei gruppetti presenti nel settore che volge lo sguardo tra le schiere d’alberi su Monte Mario e le torbide acque del Tevere, decise di riunirsi sotto un unico striscione, le strade del ventiseienne Giuseppe e dell’ancora diciassettenne Romana non s’erano ancora incontrate. E io, “piccolo” uomo nato mentre quel gigante plasmato dalla voglia d’aggregazione si sgretolava dando vita a schegge impazzite, di certo non sarei capace di descrivervi cosa abbia rappresentato il CUCS per la mia città in quegli anni.
In senso lato, non strettamente riferito al mero ambiente stadio.
Però, c’è sempre un però.
Perché del Commando Ultrà ne parlano due tipi di persone: quelli che l’hanno vissuto e toccato con mano e quelli che l’avrebbero voluto vedere.
Io appartengo alla seconda schiera.
Questo sì che posso dirvelo: cos’è il CUCS per chi non ha vissuto il CUCS.
“Il Commando non si può spiegare, perché il Commando non esiste.
È un’idea, un’astrazione, un sentimento. Nessuno ne è proprietario”
C’è uno scritto sulle gesta di questo gruppo che ha fatto la storia del tifo all’italiana – e non solo – che ha da sempre attirato le mie attenzioni; positive come segno di profonda ammirazione e negative per il semplice, condivisibile, viscerale istinto e sforzo nel dovere ammettere che “avrei voluto scriverlo io, ma qualcuno l’ha già fatto e anche molto bene”.
La penna del compianto Roberto Stracca, giornalista del Corriere della Sera venuto a mancare alcuni anni or sono, è stata capace di solcare un punto netto nell’approccio di un addetto all’osservazione verso questo genere di fenomeni sociali.
Se oggi, nonostante la spettacolarizzazione della “cronaca nera da stadio” e la diffusa, disperata ricerca di un mostro da mandare al patibolo, resistono ancora forme di eccellente giornalismo legato al mondo degli spalti, si deve anche al suo operato.
Perciò non vi stupiate se leggendo vi troverete al cospetto di alcuni passi di tale articolo.
Questi infatti sono come il lievito madre di questo impasto, come l’acqua per una pianta di rose.
“Finché ci sarà solo un bambino che sventolerà una bandiera, ci sarà il Commando Ultrà.
Siamo solo dei momentanei realizzatori di un’opera. Domani io me ne andrò e ne verranno cento migliori di me”.
Ricordo ancora quando da ragazzo, negli anni delle turbe emotive tipiche del liceale, insieme al mio compagno di banco e di stadio decisi di dedicare le sei ore di lezioni per realizzare quella che, ai miei occhi, avrebbe rappresentato l’opera più esaltante dell’intero istituto. In barba a ciò che avrebbero pensato i professori, ça va sans dire.
Armati di scotch trasparente, matite, righelli, gomme e pennarelli indelebili passammo la giornata chini su quella tavola di legno che, di solito, ci vedeva al massimo appoggiati per un breve sonnellino. Iniziammo con le iniziali, optando per uno stampatello maiuscolo piuttosto vistoso, passando man mano al completamento della tela.
Intorno alle 13 il legno di verde dipinto, sotto ai nostri occhi aveva assunto una nuova, meravigliosa sembianza.
“Commando Ultrà Curva Sud”, con un piccolo fulmine a completare un lavoro degno dei più grandi artisti di sempre. Era il nostro banco, nessuno poteva toccarlo né cancellarne il contenuto – abilmente ricoperto da copioso nastro adesivo.
Il banco di ragazzi che crescevano tra una marachella e i gradoni dello stadio, sentendo le storie dei più vecchi; quelli che non appena raggiungevi il tuo posto eran pronti ad ammonirti col sorriso al grido “regazzì prendi ‘sti giornali e fai i coriandoli”.
Non l’avevamo vissuto, ma il CUCS era ormai sinonimo di Curva Sud, ed essa era un modo come un altro per dire AS Roma.
A distanza di quasi dieci anni dall’ultima apparizione di quel monumentale striscione nel cuore pulsante del tifo romanista, un banco di un liceo nel Rione Prati si tingeva nuovamente di quei simboli e di quelle lettere. La forza di un’idea è proprio questa: il non conoscere confini di spazio e di tempo, nonostante venti avversi soffino contro.
“Anche se domani ci saranno Dylan e Ambra (i figli di questi anni) che non sapranno nemmeno chi erano Vittorio e Stefano, li accomunerà a loro un affetto e una spinta emotiva”.
Tante volte nei miei sogni d’anarchia ho immaginato di esser uno dei ragazzetti del muretto.
Ne conoscevo i nomi, alcuni col tempo ho avuto il piacere di incrociarli sulla mia strada, altri – purtroppo – non ci sono più. Megafono in mano e tamburi sotto di me e tutto intorno una marea giallorossa. Perché il Commando non era altro che questo: un oceano.
Talmente bello da lasciar tutti con la bocca spalancata, come in occasione del Derby dell’ottobre 1983 – il primo a distanza di tre anni abbondanti dall’ultima volta.
Raramente una partita verrà ricordata non per il risultato finale, ma per lo spettacolo sugli spalti.
Eppure, quel lungo telone capace di coprire buona parte della Sud, è ancor oggigiorno il ricordo nitido dei presenti e l’istantanea del nostro immaginario collettivo.
All’interno, un concetto tanto semplice quanto rivoluzionario; cinque lettere che ordinate son riuscite a render “sacro” un rito fino ad allora pagàno.
“Ti amo”, non ad una donna né ad un uomo: ma ad una idea.
E l’amore, quello sofferto, passionale, ancestrale, non è un sentimento che tende ad affievolirsi.
Al massimo muta la propria forma, in base a quanto forte sia la stretta sui cuori da parte di chi non sopporta cotanto oltraggio. Perché il CUCS è stato un oltraggio nei confronti di una società divisa dalle lotte intestine, perché al suo interno il “camerata” abbracciava il “compagno” che, l’indomani, sarebbe tornato nemico giurato.
Perché oggigiorno, nonostante si cerchi di affogarla nel pantano della menzogna, la Curva Sud rappresenta ancora un luogo d’aggregazione diametralmente opposto alla fredda realtà di una città in cui si stanno perdendo le più elementari forme di socialità.
Una Comune moderna costretta all’esilio al cospetto di un’Assemblea Nazionale dal cuore arido.
“Verrà chi dirà ‘io c’ero nel 77’ e una risata lo seppellirà.
Finché ragazzi avranno voglia di cantare e non guardare la partita, il Commando vivrà”.
Una risata è forse il modo più beffardo per replicare a qualcuno.
Perché se il CUCS è stato, è e sarà un glorioso araldo di una società diversa, è pur vero che il continuo richiamo nostalgico a quei tempi ha generato un parallelismo insensato con i tempi che corrono. Come se fosse possibile comparare generazioni così diverse.
Dire che oggigiorno il Commando Ultrà non sarebbe esistito per ciò che è stato non è un’eresia, a mio avviso. In fondo com’era capace di abbagliare con la sua bellezza, era altrettanto produttore di violenze che, un tempo, eran limitate a qualche pagina di giornale e pochi minuti di attenzione rispetto alle infinite attività inquisitorie cui son sottoposte le gesta di chi, pecorella smarrita, ha ancora quella sana pulsione di voler frequentare uno stadio.
Il paragone non è soltanto inglorioso, ma ingiusto.
Perché chi c’è oggi non è nient’altro che figlio putativo di chi c’era allora.
E se un “Ti amo” è per sempre, allora lo sarà anche il Commando Ultrà.
E così la Curva Sud.
Gianvittorio De Gennaro.