Il tempo sembra spesso cristallizzarsi e passare stancamente, quasi claudicante, quando si è ragazzi e quando se ne può disporre a proprio piacimento. Il tempo ci racconta, ci aiuta, funge da alleato e talvolta da nemico, ma trascorre con ritmi totalmente differenti a seconda dei periodi della propria vita. Tutti noi ci siamo avvicinati allo stadio, agli striscioni, ai cori, al fascino della “follia ultrà”, durante la nostra adolescenza. Che non a caso coincide con il massimo periodo di sbalzo ormonale nella vita di una persona. Crescendo assimiliamo i cambiamenti, gli stravolgimenti, di questo universo strambo e se molti se ne allontanano – quasi rinnegandolo e dandogli le spalle – tanti altri ne restano parte integrante. Memorie, ingranaggi e a volte ancora benzina per il motore di gruppi e tifoserie.
Nella provincia l’orologio biologico degli ultras incede con maggiore particolarità, spesso faticando a tenere impegnate le lancette e a trovare chi le osservi e ne rispetti la cadenza. La provincia italiana resta il terreno fertile, la base del Paese curvaiolo. Uno snodo cruciale per far sì che le nuove generazioni ancora respirino ultras e ancora riescano ad assumersi oneri e onori che ciò comporta.
La fase introduttiva di un pezzo è sempre quella più difficile, soprattutto quando di una piazza come Velletri si è già parlato diverse volte, raccontandone davvero vizi e virtù, finanche a scandagliare storia calcistica e cittadina. Eppure oggi c’è di che parlare. Ci sono vent’anni da celebrare e uno stuolo di ragazzi che negli ultimi tempi sono stati in grado di accrescere l’essere ultras veliterno, portando il nome della Banda Volsca sugli scudi e rappresentando un filo aggregativo fondamentale in un paesone che conta oltre sessantamila abitanti.
Ma andiamo con ordine e parliamo della trasversalità di questo gruppo. Un argomento che ho sempre evidenziato quando mi sono trovato a commentare le prestazioni dei rossoneri, ma che oggi più di ieri configura la base umana da cui partire e da cui vedere ragazzi, ragazze, donne e uomini di qualsiasi estrazione sociale gravitare attorno a striscioni e pezze della Banda. Come cronista mi sono sempre ripromesso di non entrare troppo nell’intimità delle tifoserie, perché ci sono cose e momenti che non debbono esser mostrati al grande pubblico. Ci sono passaggi che fanno parte solo di chi li vive. Ed è giusto così. Non mi piacciono le autocelebrazioni e l’autoreferenzialità. Quindi è necessario trovare un equilibrio ma anche restituire al lettore la dimensione delle emozioni vissute.
L’odore della vernice che entra nelle narici osservando ragazzi piegati sulla carta mentre realizzano lo striscione per la coreografia, è sempre un qualcosa di affascinante. Perché respinge prepotentemente indietro tutti quelli che si affidano al telefono, chiamando la tipografia e ricevendo indietro il lavoro fatto e confezionato, senza aver versato una goccia di sudore. Senza aver dato anima al proprio lavoro e al proprio materiale. C’è anche e soprattutto questo alla base del gruppo: la fatica e il sacrificio, prima del divertimento e dei frutti da raccogliere. La militanza in Italia è stata per anni dettata da pochi, semplici, passaggi. Osservati bene o male in tutta la Penisola per risultare originali e granitici sugli spalti. Oggi, nell’era dell’omologazione, questo è ovviamente un compito arduo e so bene quanto i social influiscano e abbiano ascendente sui ragazzi che frequentano gli stadi. In tante occasioni questo fascino è troppo perverso, tramutando la vita di curva in una sorta di reality. Fortunatamente non è questo il caso e la linea che divide esibizionismo da ostentazione di vita da stadio è ben rispettata.
Quando arrivo allo Scavo, la domenica mattina, mancano ancora diverse ore al fischio d’inizio. Eppure già parecchi ragazzi sono intenti nel portare scatoloni con il materiale, cibo, musica e tanta allegria. Il grande giorno, quello per cui si è lavorato diverse settimane, è arrivato: quattro lustri al seguito della VJS oggi saranno celebrati alla presenza, praticamente, di tutte le generazioni e di gran parte degli striscioni che in questo lasso di tempo hanno affiancato le maglie rossonere. Compresi i tanti periodi bui. Quelli in cui Velletri non è riuscita a dar linfa alla propria passione ma, anzi, ha visto i propri sogni infrangersi e sciogliersi sotto il fuoco di quella “cosa” chiamata “fallimento”. Le ripartenze dalla Terza Categoria, i tifosi che si fanno carico di ricostituire la società, i campionati difficili e una Promozione conquistata con fatica e per la quale ci sarà bisogno di sudare le proverbiali sette camicie al fine di non retrocedere. Sono solo alcune delle tappe che paradossalmente hanno dato ancor più voglia di far bene a questi ragazzi. Tappe di cui ho abbondantemente parlato in articoli precedenti e che posso dire con certezza siano state fondamentali per essere ciò che sono oggi. Il collante unico: voler rappresentare la città attraverso tutte le sue espressioni. Via le barriere ideologiche o gli screzi personali e tutti sulle gradinate nel solo nome della VJS. Una cosa normale, direte? Non proprio se si pensa agli autogol del movimento ultras in queste situazioni. Non proprio se si fa i conti con la vicinanza di Roma, una città che per forza di cose finisce per fagocitare sia a livello numerico che da un punto di vista dell’apparire la maggior parte delle realtà aggregative contigue, soprattutto in tema stadio.
La partita di oggi, peraltro, vede al cospetto dei padroni di casa ciò che resta della Viterbese. La società che lo scorso anno era in C e che oggi annaspa, all’ultimo posto, in Promozione (e che si ritirerà dal campionato pochi giorni dopo), essendo combattuta e osteggiata dai tifosi cimini, oggi al seguito della FC Viterbo, in Eccellenza. Una delle tante italiche storie attorno al pallone, che ormai neanche ci sorprendono più di tanto. Per l’occasione decido di immergermi anche dall’altra parte degli spalti, vale a dire nella zona degli spogliatoi, dove giocatori, dirigenti e magazzinieri sono intenti a organizzare l’ingresso della squadra in campo, volto anch’esso a onorare la ricorrenza degli ultras. Un vecchio stemma, quello storico, della VJS si staglia davanti ai miei occhi. “L’ho messo io, per coprire il muro bianco” mi svela il magazziniere, che con estrema gentilezza intanto mi fa da cicerone per farmi intervistare uno dei protagonisti della lenta risalita del club: Matteo Moscato, direttamente dagli spalti ai ruoli organizzativi. Del resto, in un calcio sano questo può essere l’unico futuro. Ed è così che i castellani operano. Magari non scalando immediatamente le classifiche, non pagando profumatamente capricciosi attaccanti di categoria superiore, ma tracciando la strada a una realtà che dev’essere innanzitutto duratura e radicata sul territorio. Perché è solo così che, in caso, si può rispondere a una delusione sportiva con il lavoro e una pronta risalita.
Ogni giorno ultras, è lo striscione che viene affisso nella parte bassa del settore di casa. Realizzato in settimana con l’obiettivo di rappresentare in modo perpetuo il credo di questi ragazzi, farà da cornice allo spettacolo di inizio partita, quando – come detto – quasi tutte le insegne passate sugli spalti in questi anni verranno tirate su, seguite infine dallo striscione che oggi rappresenta la Banda Volsca. Nel frattempo, sulla tribunetta, altri ragazzi sistemano con dedizione i bandieroni, il tamburo e le nuove sciarpe, provenienti proprio dal vicino gazebo allestito per l’occasione. Sa tutto, molto, di anni novanta/inizio duemila, quando un clima simile era la regola anche in categorie professionistiche e pochi di noi si ponevano domande su ciò che sarebbe stato negli anni a venire. Il proibizionismo, i divieti, la demonizzazione del mondo ultras ma anche la sua chiusura e i suoi errori. In pochi avrebbero pronosticato un quadro così tragico. Eppure, il fatto che oggi siamo ancora qui, che ancora ne possiamo parlare e che si sia tramandata un’idea e una volontà di militare, è davvero qualcosa di prezioso e per certi versi incredibile. Malgrado il conflitto generazionale e malgrado gli errori dei giovani ma soprattutto i loro sacrifici per fare una vita da stadio che nel 2024 significa pericolo Daspo ad ogni passo, repressione gratuita e lotta a uno stereotipo che media e giornali continuano a cavalcare.
In corteo arrivano “i più grandi” dietro ai vecchi striscioni. Ed è sicuramente bello, anche perché preceduti da un paio di bombe e da una bella torcia che lanciata lascia alle sue spalle la classica scia. L’arbitro – che ignaro di tutto poco prima mi aveva chiesto se riuscissi a scattargli qualche foto, non conoscendo la mia concitazione – sembra premere per non iniziare in ritardo, malgrado a centrocampo entrino decine di bambini delle giovanili, i quali ricevono come premio alcune maglie della Banda Volsca, quasi a voler suggellare la simbiosi affettiva e identitaria tra tifosi e club. Sicuramente un’immagine bella, dove gli ultras per una volta recitano il ruolo – che poi è effettivo, ma volutamente oscurato – di motore a supporto di tutte le attività della squadra tifata. Cosa sarebbe la VJS Velletri senza la Banda Volsca? Probabilmente una normalissima società, che con tutta probabilità non avrebbe avuto modo di rinascere dalle ceneri e scavarsi la strada tra le macerie. E allora sancita ancora questa unità d’intenti, ricordato a tutti che il tifo organizzato non è un mostro a tre teste ma un movimento di aggregazione giovanile – l’unico – che resiste da oltre cinquant’anni e che spesso e volentieri grazie alla sua solidarietà e al suo essere onnicomprensivo, riesce a crescere ragazzi e formarli anche oltre la virtualità, l’ignavia e l’indifferenza che sovente regnano nel mondo “normale”, si può legittimare ancor più il coro “Quanto è bello essere ultras”, che in fondo dice la verità.
Al megafono si alternano diverse generazioni e ognuna, ovviamente, riporta alla luce i suoi fasti e la sua epoca. Non importa se certi cori ormai non li conosca più nessuno, importa che comunque tutti provino a cantarli e con il sorriso sulle labbra seguano i più vecchi. Tra una battuta ironica e il rispetto. Il microcosmo degli ultras veliterni, in fondo, è uno dei tanti che costituisce la costellazione ultras da Aosta a Palermo e che davvero risulta molto più variegato e complesso di quanto si pensi. Col tempo ho capito che sono proprio questi microcosmi a solleticare di più il mio interesse, perché se non altro conservano appieno un certo spirito. Lo spirito che fa scoppiare il settore al gol del vantaggio della VJS, ma anche quello che fa arrabbiare gli ultras dopo il pareggio finale e l’ennesima occasione buttata per portarsi fuori dalle sabbie mobili della zona retrocessione. Sebbene questa non sia la domenica per guardare con troppo trasporto al risultato, nessuno è qua per fare la scampagnata e nel cuore di tutti si sa che il bene comune dai colori rossoneri va preservato e difeso, quindi spinto fuori dalle difficoltà.
Finisce con il freddo che comincia inevitabilmente ad arrivare dalla Piana Pontina, mentre il sole sta lentamente andando dietro le colline e i ragazzi sono intenti a ripiegare il materiale. Benché per loro la giornata non sia finita, ma ci sia ancora una domenica da onorare in quanto a festeggiamenti e divertimenti. Da lontano li vedo tutti posare in una foto intergenerazionale, mentre io ho fatto i salti mortali per recuperare il documento e tornare in campo. Vent’anni di ultras non debbono essere un punto d’arrivo, certamente, ma lo stimolo a migliorare e continuare a far meglio, per lasciare un’impronta duratura anche a tutti i ragazzi che verranno in futuro e che vorranno militare dietro pezze e striscioni, essendo coscienti e convinti di quanto ciò possa essere sempre più difficile e verrà sempre più combattuto dall’alto. Ci penso mentre aspetto il mio pullman per Roma, scendendo le scalette della stazione che mi portano davanti al grande murales dove campeggia la scritta Atteggiamento Zellino. Un’espressione che nel dialetto locale sta a indicare il modo tignoso, caparbio e rognoso di affrontare la vita e – in questo caso – la curva. Probabilmente il valore aggiunto al modus vivendi curvaiolo, l’unica garanzia che può consentite altri decenni di sopravvivenza!
Simone Meloni